mercoledì 27 dicembre 2017
Non solo Dell'Utri
domenica 5 novembre 2017
Campagna elettorale sulla pelle delle persone
(* qui il link all'intervento congressuale di Rocco Ruffa al XVI Congresso di Radicali Italiani)
lunedì 23 ottobre 2017
Siamo stati tutti stranieri
sabato 29 luglio 2017
Somalia, la carestia proclamata nel nome di Allah
LE STORIE. SOMALIA, LA CARESTIA PROCLAMATA NEL NOME DI ALLAH
Valter Vecellio
Nairobi, 29 luglio 2017. Non bastavano i divieti di vario genere, che estremisti come quelli di Al Shabaab impongono sui territori che controllano: ora il gruppo terroristico somalo ha deciso di impedire alla popolazione – già vittima di un periodo di siccità senza precedenti - di accedere all'assistenza umanitaria, aggravando in modo ancor più drammatico la situazione per decine di migliaia di persone. La scelta a cui vengono posti davanti i somali è semplice: morire di fame, di stenti e malattie, oppure morire giustiziati, o al limite come scudi umani durante i bombardamenti americani. Secondo le testimonianze sul posto, centinaia di bambini e di anziani stanno già morendo in massa. Gli uomini di Al Shabaab hanno fatto sapere alla popolazione che chiunque abbia contatti con le agenzie umanitarie – percepite come avamposti del nemico - verrà considerato una spia e giustiziato come tale. Attualmente - sostengono le agenzie stesse, che negli ultimi tempi hanno dovuto diminuire di molto l'assistenza - in Somalia sono almeno 6.7 milioni le persone che avrebbero bisogno di supporto umanitario, la metà delle quali rischia di morire di fame. C'è chi ricorda come andò nel 2011, quando al Shabaab impose un blocco all'assistenza umanitaria, provocando la morte di circa 250.000 persone.
Strano dirlo nelle attuali, drammatiche condizioni, ma stavolta il gruppo terroristico sembrava aver adottato un approccio più "moderato" rispetto a sei anni fa, permettendo ad alcune Ong di operare sotto strettissimi criteri di accettazione. Da giugno, tuttavia, l'ostilità dei terroristi sembra essere aumentata. La gente di Tiyeglow sta soffrendo la fame. Al Shabaab ha improvvisamente vietato alle agenzie di raggiungere le persone che in città si trovavano in pericolo di vita. Molta gente è così partita per cercare cibo", spiega Ibrahim Abdirahman Mohammed al Guardian. "I bambini sotto ai cinque anni sono in una particolare condizione di rischio, perché il tasso di malnutrizione cresce, e se il blocco di Al Shabaab continua vedremo morire molti più bambini", avverte. Il mese scorso Save the Children ha pubblicato un report in cui si mostra come i casi di forte malnutrizione siano aumentati in quattro distretti su nove (controllati da Al Shabaab) nelle aree centrali e meridionali della Somalia. Nel distretto di Mataban, il 9.5% dei bambini sotto i cinque anni è fortemente denutrito. Più di due milioni di persone - un quinto della popolazione somala - vivono in aree controllate dall'organizzazione terroristica, che ha ripetutamente attaccato operatori umanitari e su base quotidiana attacca agenzie governative.
Più di 700.000 persone hanno già lasciato le proprie case, di cui 200.000 solo negli ultimi due mesi. Quasi tutti sono partiti per cercare cibo, come nelle peggiori carestie.
"Quando è iniziata la siccità, al Shabaab all'inizio ci ha detto che avremmo potuto accettare cibo solo da organizzazioni islamiche, ma poi alla fine hanno detto di no. Chiunque fosse trovato a portare cibo o aiuti sarebbe stato ucciso, perché sospettato di collaborare col governo somalo", spiega Abdiya Barrow, una madre di sette bambini a Tiyeglow, che ha raccontato di aver camminato circa sette giorni per raggiungere Baidoa, dove i suoi tre bambini più piccoli hanno ricevuto le prime cure per far fronte alla diarrea e alla malnutrizione. "La vita è tremenda. Non c'è cibo, non c'è acqua. La gente muore ogni giorno". Peggio è andata a chi vive in alcuni villaggi dove il controllo di Al Shabaab è talmente capillare che alle persone viene impedito di lasciare il territorio di origine. "Al Shabaab ci ha detto di non lasciare la città, perché non vogliono che la città diventi vuota. Ma non c'è nulla da mangiare. Un kilo di riso costa quasi 4 dollari. Chi può permetterselo? Le donne e i bambini stanno morendo", avverte Mohammad Osman, che vive a Baule. Secondo le autorità somale, Al Shabaab impedisce alla popolazione di scappare perché sa che se la città si svuotasse, il governo e gli Stati Uniti intensificherebbero i bombardamenti aerei. Un recente rapporto delle Nazioni Unite sostiene che la Somalia continua a vivere un "elevato rischio di carestia", acuita dal fatto che le piogge quest'anno sono state scarse.
venerdì 30 giugno 2017
Lettera aperta a Nicola Irto
mi rivolgo a Lei nutrendo la speranza che, attraverso il suo giornale, possa parlare e rivolgermi alle istituzioni regionali calabresi. In particolare la mia lettera è rivolta al presidente del consiglio regionale Nicola Irto in qualità di primo firmatario e presentatore del progetto di legge per l'Istituzione del "Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale" e per la quale sono in sciopero della fame ormai da giorni.
Una fame che è fame di giustizia giusta e di Stato di Diritto. Uno sciopero della fame, il mio, iniziato per sostenere il digiuno di oltre un mese di Rita Bernardini rivolto ad ottenere una Legge per la “Riforma dell’Ordinamento Penitenziario” frutto degli Stati Generali sull’Esecuzione Penale che lo stesso ministro della giustizia aveva voluto e far approvare, ai sensi dell’art. 79 della Costituzione, un provvedimento legislativo di amnistia e indulto che rappresenti quella “amnistia per la Repubblica", "amnistia legalitaria", che invocava Marco Pannella contro l'amnistia strisciante costituita dalle centinaia di migliaia di prescrizioni.
Oggi, personalmente, dopo che l'onorevole Rita Bernardini ha sospeso il suo, continuo a digiunare quattro giorni alla settimana per cercare di dialogare con Lei - Presidente- e con il Consiglio Regionale tutto affinché almeno si discuta la legge sul garante regionale dei detenuti.
La mia non vuole essere una provocazione, né un rimprovero, ma - come consuetudine radicale - è una richiesta di dialogo proprio su quella proposta di legge da Lei presentata, quasi due anni fa, il 13 maggio del 2015 quando ancora non era diventato presidente del consiglio regionale.
Sono quasi due anni!, si rende conto?
Potrei dirLe che è facile -nella sua posizione- presentare una proposta di legge per fare una velina rimproverandoLe che è più difficile fare in modo che questa venga poi approvata o, quantomeno, discussa nelle competenti commissioni e nell’assemblea che Lei oggi presiede.
Mi consenta di dirLe però, caro Presidente, che quel progetto di legge consentirebbe di tutelare diritti umani fondamentali e di prevenire forme subdole di "tortura democratica" che pur nelle carceri calabresi esistono. Invece quella proposta giace ancora in Prima Commissione, arenata per l'esame di "Merito" dal 30 Giugno2015. Dove l'esame è stato rinviato perché mancava la scheda tecnico-finanziaria. È ridicolo, e ci sarebbe da ridere se non fosse che parliamo di una legge praticamente a costo zero se non quelli di funzionamento ma che consentirebbe di tutelare diritti inviolabili anche per chi è stato privato della libertà. Mancano i soldi? Ma in quattro e quattr'otto, Le ricordo, nelle aule del consiglio regionale si stava per approvare una legge per far percepire la pensione ai consiglieri regionali e, solo all'ultimo momento, si è fatto marcia indietro per ragioni di opportunità politica.
Che dire? Niente. Le chiedo, anzi, La prego di soddisfare la fame di Giustizia delle “persone private della libertà personale” e la mia, e almeno discutere la proposta di legge che Lei ha presentato. Grazie.
Ing. Rocco Ruffa, militante calabrese del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito
Così come è la legge sul reato di tortura non ci piace
Il flusso incessante di richiami che provengono all'Italia dagli organismi sovranazionali, in primis il Consiglio d'Europa, con le sentenze della Corte Europea per i diritti umani sul caso Cestaro e più di recente sui risarcimenti dovuti dall'Italia per i fatti della Diaz, le raccomandazioni del Comitato europeo Prevenzione Tortura e del Comitato dei Ministri, fino alla lettera inviata dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa Nils Muiznieks ai Presidenti di Camera e Senato in merito alle criticità per la formulazione del reato di tortura che si sta introducendo, senza dimenticare il Comitato Onu sui diritti umani con il suo Rapporto sull'Italia dello scorso mese di marzo, sono a questo punto eloquenti di una violazione sistematica da parte dell'Italia di precisi standard e obblighi internazionali.
Perché quando ci si impegna, come l'Italia si è obbligata a fare 28 anni fa ratificando la Convenzione Onu contro la tortura, ad introdurre il reato di tortura e, poi, omette di farlo per oltre un quarto di secolo, allora, diventa uno Stato tecnicamente fuori legge, con ciò perdendo autorevolezza, prestigio e credibilità agli occhi della comunità internazionale. Quando poi il nostro Paese si appresta a varare una legge che non contempla il reato di tortura come chiaramente descritto e sancito dal diritto internazionale, l'impegno nei confronti dell'Onu di 28 anni fa non può essere considerato serio e pienamente soddisfatto.
Il testo che sta andando al voto alla Camera non è il reato di tortura come previsto dalla Convenzione Onu, secondo la quale "il termine "tortura" indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona
Infine il "tana libera tutti", perché non si può parlare di tortura "nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti", né si trova nella legge un riferimento al fatto che le sofferenze siano "segnatamente volte ad ottenere informazioni o confessioni" come si legge nella Convenzione Onu.
Non mi stupisce se penso che nel nostro Paese esiste quella forma di "tortura democratica" che, insieme all'ergastolo ostativo, è il 41- bis rispetto al quale il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha ritenuto, di fronte alla giustificazione delle autorità italiane che la particolare afflittività è necessaria per contrastare la criminalità organizzata e proteggere la società, che fosse poco convincente e che si potesse ritenere invece che l'obiettivo di fondo fosse "piuttosto quello di utilizzare le ulteriori restrizioni come strumento per aumentare la pressione sui prigionieri in questione, al fine di indurli a collaborare con la giustizia" in contrasto con il dettato costituzionale e gli obblighi internazionalmente sottoscritti.
*Presidenza Partito Radicale e Comitato europeo per la prevenzione della tortura per conto dell'Italia
mercoledì 31 maggio 2017
Qui non si parla degli EBREI
di Valter Vecellio
(titolo originale: MANCHESTER VICINA, KABUL LONTANA?)
Londra dista meno di 2.000 chilometri da Roma. Manchester circa 2.200. Parigi meno di 1.500. Berlino 1.500 circa. Kabul oltre 6.500. Poi, vuoi mettere: a Parigi, Londra, Berlino sono bianchi (ancora, almeno). In Afghanistan scuri di pelle, quasi neri… Sì, è vero, anche il loro sangue è rosso. Ve lo ricordate il monologo di Shylock ne “Il mercante di Venezia” di Shakeaspeare? “Non ha forse occhi un ebreo? Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni? Non si nutre egli forse dello stesso cibo di cui si nutre un cristiano? Non viene ferito forse dalle stesse armi? Non è soggetto alle sue stesse malattie? Non è curato e guarito dagli stessi rimedi? E non è infine scaldato e raggelato dallo stesso inverno e dalla stessa estate che un cristiano? Se ci pungete non versiamo sangue, forse?...”
Ecco, al posto di ebreo ci si può mettere copto, yazidi, curdo, nero, come “ieri” italiano-macaroni-dago, polacco, irlandese…il resto va sempre bene…
La polizia afgana parla di oltre 80 morti e di centinaia di feriti, provocati dall’ultimo attentato targato ISIS; tanti ragazzini, anche; ventisette giorni dopo un altro attentato, che ha ucciso “appena” otto persone. Magari a questo si presterà una briciola in più di attenzione: anche un ospedale di Emergency è rimasto coinvolto; ma non troppa, che si parla “solo” di danni: gli operatori della struttura stanno bene. Dunque, si volti pure pagina…
Però, forse, in questa pagina non sarebbe male restare. In Afghanistan, Stati Uniti e alleati sono intervenuti nell’autunno del 2001. C’era stata la strage alle Twin Towers, Osama bin Laden aveva scatenato la sua guerra santa, i taleban lo proteggevano… E dopo l’Afghanistan, ecco l’Irak di Saddam. L’inquilino alla Casa Bianca era George W. Bush, che ora trascorre quieto il suo tempo nel ranch di Crawford: dipingere ritratti di veterani caduti in combattimento, “Portraits of courage”, “tributi di un Comandante in capo ai guerrieri americani”.
“Mission accomplished” dice Bush il 1 maggio 2003, nel suo discorso sulla portaerei “USS Abraham Lincoln”; è la frase che di solito si pronuncia al termine di una missione. Doveva essere l’annuncio della fine delle operazioni militari. Vediamo bene, che la missione non è per nulla “accomplished”: Bush non è più presidente; e neppure Barack Obama I e II; oggi c’è Donald Trump, e la missione è ancora in corso.
Converrebbe restarci, nella pagina afgana. Inutile fare gli struzzi e nascondere la testa sotto la sabbia.
Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite il 2016 è l’anno con il maggior numero di vittime di attentati terroristici, a Kabul e dintorni: oltre 11mila fra morti e feriti gravi documentati (non si saprà mai quanti, tra loro, sono sopravvissuti). Le milizie islamiste occupano il 10 per cento del territorio afgano, e ne contendono un buon 30 per cento. Il governo di Kabul, insomma, controlla poco più del 50 per cento del paese. Siamo al sedicesimo anno di conflitto. Gli Stati Uniti e l’Occidente non ne sono venuti a capo. Gli analisti dicono, concordi, che per sciogliere qualche nodo occorrerà inghiottire, piaccia o no, qualche amaro boccone. Si chiama, questo boccone amaro, compromesso politico con i taleban. Potrà essere più o meno disonorevole, umiliante, ma questo è.
Onore, orgoglio e umiliazione a parte, c’è che i taleban non sono un blocco unico, un monolite. Sono una galassia polverizzata e divisa al suo interno; e ogni clan persegue una sua finalità: c’è chi vuole dominare una fetta di territorio; c’è chi vagheggia un emirato islamico; c’è chi ha dei conti da regolare con l’attuale regime che sgoverna Kabul. Poi, ovviamente si giocano partite al di fuori dei confini. I russi di Vladimir Putin non stanno certo a guardare; e neppure il Pakistan, che da sempre sostiene i taleban e interferisce boicottando ogni possibile trattativa; da sempre le forze armate pakistane, e i potentissimi servizi segreti di quel paese hanno solidi legami con i taleban. L’attuale presidente Ashraf Ghani Ahmadzai cammina su un tappeto di chiodi acuminati: presiede un governo dilaniato da continue rivalità e faide etniche; la corruzione dilaga, pessima l’amministrazione centrale e locale: satrapie occupate in furti e spoliazioni programmatiche e sistematiche. In questo contesto lo sfruttamento e il contrabbando di materie prime (minerali, marmo), ma soprattutto la coltivazione e lo smercio di droga sono moneta corrente. Diciamo che si parla di milioni di euro di ricavato che in buona parte vengono utilizzati per alimentare i conflitti, la cui ragion d’essere si trova nel poter continuare a lucrare con i traffici illeciti. L’Afghanistan è un ginepraio con il quale si dovranno fare i conti per decenni. Questo è il “dossier” Afghanistan.
Il camion bomba fatto esplodere a Zanbaq Square (una delle zone più protette di Kabul, figuriamoci le altre), questo ci dice. Si volti pure pagina, ora; ma quei 6.500 chilometri che ci separano dall’Afghanistan sono molto più vicini di quanto si creda.
sabato 8 aprile 2017
Il giornalista che è in me
““La staffetta radicale di fame e sete di iscritti al PRNTT".
5 giorni in tutto di sciopero della fame e 2 giorni di sciopero della sete:
Questo lo sforzo di due militanti radicali che scioperando da oltre un mese chiedono inascoltati che anche la Calabria sia dotata di un garante dei detenuti.
Con un giorno a settimana di sciopero della fame e della sete lo storico militante del Partito Radicale il prof. Giuseppe Candido chiede che le istituzioni calabresi, a partire dal Consiglio Regionale della Calabria, istituisca la figura del Garante delle persone private della libertà.
Questa iniziativa nonviolenta è aggravata con l’autoriduzione di insulina, farmaco salvavita del quale -seppur sotto stretta osservazione clinica- lo scrittore, giornalista, geologo, calabrese ha bisogno per combattere il diabete.
“Il presidente Irto, quando ancora era un ‘semplice' consigliere regionale, presentò un disegno di legge in tal senso (la PL 14/10^, nota del redattore) che da due anni giace in qualche stanza di Palazzo Campanella dimenticata" specifica Candido.
“la mia battaglia -lo stesso Candido precisa- è condivisa dal compagno Rocco Ruffa che dallo scorso Febbraio digiuna quattro giorni a settimana con l’aggiunta di 24 ore di sciopero della sete".
I due radicali, dopo aver visitato più e più volte le carceri calabresi denunciano le condizioni di sospensione della legalità in cui il sistema penitenziario versa.
“Molti detenuti, seppur malati non godono del diritto alla salute; la quasi totalità non può accedere a forme rieducative essenziali come il lavoro, lo studio, l’affettività a causa di carenze strutturali di agenti di Polizia Penitenziaria, educatori, personale amministrativo, magistrati di sorveglianza" - specifica Ruffa nel comunicato radicale.
“la nostra battaglia, con il vitale sostegno dei mezzi d’informazione, serve a sensibilizzare i nostri concittadini che ignorano che ‘le carceri italiane sono criminogene’ (parole del Ministro della Giustizia Andrea Orlando - ndr) e quindi non fanno che peggiorare il già precario tessuto sociale calabrese" leggiamo nel comunicato.
giovedì 6 aprile 2017
venerdì 24 marzo 2017
GIUSTIZIA: L’OTTIMO CONSIGLIO DI BENEDETTO CROCE (NEL 1911): STATE LONTANI DAI TRIBUNALI
di Valter Vecellio
La lettera è di Benedetto Croce, indirizzata a Giovanni Amendola la data è del 1 giugno1911. Croce racconta di una disavventura giudiziaria capitata a Giuseppe Prezzolini. Si chiude con un consiglio: stare quanto più possibile lontano dai tribunali. Croce non è un estremista anarcoide; è un liberale con il senso dello Stato e delle istituzioni; e tuttavia, quando si tratta dei tribunali, consiglia prudenza e cautela. Un po’ come per la superstizione: Croce non crede alla jella: “Ma prendo le mie precauzioni”.
A Croce, al suo “consiglio”, alle sue “precauzioni”, mi viene da pensare nel leggere i risultati di un sondaggio demoscopico secondo le quali un italiano su due ha poca o nessuna fiducia nei confronti dei magistrati e del modo in cui applicano le leggi di cui, purtroppo, questo paese è infarcito. Confesso che comprendo molto bene questo italiano su due timoroso; e fatico a comprendere come, al contrario, ci sia un italiano su due che questo timore non lo coltivi.
Lui lo dice con il sorriso tra le labbra; io lo penso seriamente: sono d’accordo con il presidente dell’Associazione Nazionale dei Magistrati Piercamillo Davigo: “Pensavo peggio, temevo stessimo a zero”.
Il dottor Davigo si “consola” dicendo che “il consenso nei nostri confronti è cresciuto, dopo anni di campagna martellante contro la magistratura dovrebbe essere a zero”. Non appare molto allarmato da quanto emerge dal sondaggio; e già questo è allarmante. Allarma. Un allarme che deriva, probabilmente, dal fatto che si appartiene a quella scuola di pensiero che affonda le sue radici in Emile Zola, le cui notti, diceva, “sarebbero state un incubo al solo terribile pensiero di un innocente che sconta una colpa che non ha commesso”. Sarà preda di incubi, lo sarà mai stato, il dottor Davigo?
Non sarebbe male (sarebbe anzi doveroso) che il magistrato si chieda se non sia anche lui, con il suo “fare” (o non “fare”, beninteso) responsabile del modo in cui viene “percepito”. Il dottor Davigo parla di “campagna martellante contro la magistratura”; verrebbe da rispondergli con Dante: “…credo ch’un spirto del mio sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa…”. Ma non è cosa da potersi liquidare con una battuta, con un verso, sia pure di Dante.
Due terzi degli italiani dice di non credere nella giustizia; il 69 per cento degli interpellati ritiene che “settori della magistratura perseguano fini politici”. Dottor Davigo: non c’è proprio nulla di che scherzare.
Purtroppo, tocca ancora una volta, dire: “Heri dicebamus”. Giusto trent’anni fa i radicali di Marco Pannella, con socialisti di Bettino Craxi e liberali di Alfredo Biondi, raccolgono le firme per tre referendum sulla giustizia. Referendum, se lo ricordano nei “Palazzi” del potere?, che si concludono con una netta affermazione dei SI. Poi il Parlamento approva la cosiddetta legge Vassalli, che però va in senso esattamente contrario al voto popolare(ma è quello ardentemente voluto dai predecessori del dottor Davigo).
Gli italiani, in stragrande maggioranza, vogliono che sia introdotta la responsabilità civile dei magistrati, perché, per capirci, non si ripetano più casi come quelli di Enzo Tortora. Chiedono che i magistrati fuori ruolo tornino alle loro funzioni originarie. Chiedono che l’uso della custodia cautelare e il carcere preventivo si applichino solo per reati gravi. Chiedono la separazione delle carriere dei magistrati, perché il cittadino sia giudicato da un “giudice terzo”, obiettivo e imparziale.
A leggere i quesiti referendari di allora non ce n’è uno che non valga oggi, per l’oggi. A chi obietta che si tratta di proposte ad uso (e abuso) di politici che hanno qualcosa da rimproverarsi, è sufficiente rispondere con le parole di Giovanni Falcone: “…un sistema accusatorio parte dal presupposto di un PM che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienza, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice, non essere come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carattere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e PM siano, in realtà indistinguibili gli uni dagli altri…”.
Ancora: “…Ora sul piano del concreto svolgersi dell’attività del PM, non può non riconoscersi che i confini fra obbligatorietà e discrezionalità sono assolutamente labili e, soprattutto, che la discrezionalità è, in una certa misura, un dato fisiologico e, quindi, ineliminabile nell’attività dl PM. Ed allora, se vogliamo realisticamente affrontare i problemi, evitando di rifugiarsi nel comodo ossequio formale dei principi, dobbiamo riconoscere che il vero problema è quello del controllo e della responsabilità del PM per l’esercizio delle sue funzioni… Mi sembra giunto, quindi, il momento di razionalizzare e coordinare l’attività del PM finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticista della obbligatorietà dell’azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli della sua attività…” (dall’intervento al convegno di Studi Giuridici di Senigallia, 15 marzo 1990).
Anni fa Leonardo Sciascia si chiedeva: “Qual è la situazione? Un giovane esce dall’Università con una laurea in giurisprudenza; senza alcuna pratica forense e con poca esperienza, direbbe Manzoni, del ‘cuore umano’, si presenta ad un concorso; lo supera svolgendo temi inerenti astrattamente al diritto e rispondendo a dei quesiti ugualmente astratti e da quel momento entra nella sfera di un potere assolutamente indipendente da ogni altro; un potere che non somiglia a nessun altro che sia possibile conseguire attraverso un corso di studi di uguale durata, attraverso una uguale intelligenza e diligenza di studio, attraverso un concorso superato con uguale quantità di conoscenza dottrinaria e con uguale fatica…”.
E dunque l’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia (e crisi è forse parola troppo leggera) deriva principalmente dal fatto che “una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio… Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto”. E’ amaro trent’anni dopo dirci le stesse cose.
Vero è, dottor Davigo, quello che annotava, secoli fa, Cesare Beccaria: “Il giudice non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto”. E dunque, torna buono il cauteloso consiglio di Croce con cui questa nota è cominciata.
mercoledì 22 marzo 2017
SE IL MAGISTRATO E IL FIGLIO DEL NARCO-TRAFFICANTE ARRIVANO ALLE STESSE CONCLUSIONI…
domenica 19 marzo 2017
La Calabria è antimafiosa
È così tanto il rispetto che proviamo nei Suoi confronti e per il Suo ruolo che non Le faremo il torto di scrivere una lettera retorica e ruffiana.
Lei è il terzo presidente della Repubblica che viene nella nostra Terra. Pochi anni fa, all’indomani del delitto Fortugno, abbiamo avuto la presenza di Carlo Azeglio Ciampi. Oggi Lei è qui perché la Locride è stata scelta - e non a caso - come luogo di incontro dei familiari delle vittime delle mafie.
Ancor prima è venuto il presidente Giuseppe Saragat e ha visitato San Luca per rendere omaggio alla memoria di Corrado Alvaro. Il nostro conterraneo, importante scrittore e giornalista, che qualche anno prima aveva scritto un editoriale sul Corriere della Sera in cui affermava che i calabresi si sentivano altra cosa rispetto allo Stato perché lo Stato aveva abbandonato la Calabria.
Editoriale più attuale che mai!
In Aspromonte, Saragat non ha parlato di ‘ndrangheta e non perché fosse reticente. In quegli anni, in gran parte della Calabria la mafia non c’era affatto, esisteva in qualche angolo remoto ed era, comunque, un fenomeno assolutamente marginale... I “mafiosi” si riunivano in qualche oscuro anfratto per parlare di “corna”, di “onore”, o del furto di qualche animale.
Le cose sono cambiate quando è iniziata un’opera di distruzione sistematica del nostro fragile (ma dignitoso) apparato produttivo e la conseguente fine della nostra civiltà. In poco tempo le terre divennero incolte, le montagne arse, le mille botteghe artigianali chiuse, le piccole industrie conobbero una crisi senza fine.
Lo “Stato” ha programmato un esodo di massa perché invece di creare lavoro al Sud è stato più comodo spostare manodopera a basso costo verso il Centro-Nord. Una scelta calata dall’alto che fece diventare i nostri paesi spettrali, le strade deserte, le case ruderi di alcun valore. A un popolo di lavoratori instancabili e tenaci è stato inoculato il virus dello scrocco, dell’assistenzialismo, del vagabondaggio, della subalternità.
Da questa scelta tragica e scellerata nasce la ‘ndrangheta!
Non giudichi col metro della mafia siciliana o della camorra napoletana che hanno altre origini e altra storia.
È doloroso dirlo ma in Calabria, per decenni lo Stato ha generato ‘ndrangheta senza mai combatterla! Anzi vi sono stati ministri e alti rappresentanti dello “Stato” che l’hanno utilizzata come strumento di governo. Si pensi al summit di Montalto!
Oggi verranno letti i nomi delle vittime di mafia. Non conosco il loro numero, ma so bene che vanno tutte onorate, perché sono tutte “nostre” allo stesso modo.
Nella stragrande maggioranza si tratta di commercianti, muratori, agricoltori, liberi professionisti. Rocco Gatto era un mugnaio, Marino un bravissimo chirurgo, Scuteri un muratore, Simonetta un avvocato, De Maio un sindaco, Futia un dipendente comunale, la signora Speziale una donna molto stimata nella sua comunità. Potrei continuare all’infinito….
Per fortuna nostra - e lo diciamo con autentico sollievo - non è mai stato toccato un solo capello, nè forata la gomma di una bicicletta a un magistrato, a un deputato, a un questore, a un prefetto. Ne consegue che le centinaia di vittime della ‘ndrangheta uccise in questi ultimi trenta anni appartengono al popolo calabrese.
Rifletta Signor Presidente,
le vittime sono carne e sangue del nostro popolo ma sul banco degli imputati sono riusciti a mettere “i calabresi” con un’opera di diffamazione lucida e calcolata che non ha riscontri nella storia.
Chi clicca Calabria vi troverà a fianco la parola ndrangheta! È questa la vittoria di coloro che hanno voluto ridurre la Calabria a una sola dimensione: quella criminale!
L’hanno fatto per logiche di potere esterne e contro la nostra Regione e che nulla hanno a che vedere con la lotta alla ‘ndrangheta.
Io apprezzo i sacrifici di coloro che combattono la criminalità ma, al di là della loro volontà, molti degli “eroi” che occupano la scena sono stati funzionali a questo perverso disegno.
Le darò un riscontro inoppugnabile.
Dinanzi alle migliaia di vittime di mafia vi sono almeno il doppio di vittime innocenti della “giustizia”.
Non parlo di errori giudiziari ma di innocenti finiti in carcere. È forte e legittimo il sospetto che l’alto numero degli incatenati sia servito per conquistare le prime pagine dei giornali e i titoli di apertura delle televisioni nazionali. In due sole “brillanti operazioni” (leggi giustizia sommaria) oltre duecento innocenti hanno varcato le porte del carcere: vittime di una strategia antimeridionale che grida vendetta al Cielo. Di molti di loro rivedo il volto : alcuni morti di infarto, altri di angoscia, molti di crepacuore.
Oggi, sono molti a dire che il popolo calabrese non partecipa alla “lotta alla ndrangheta”. Si tratta di un falso storico, di un luogo comune, di un paradigma che va corretto perché in questi anni l’unico argine che ha retto all’espansione mafiosa è stato quello costruito - in silenzio e a prezzo di enormi sacrifici e di molte vittime - dal popolo calabrese. È vero invece che i calabresi si rifiutano di diventare marionette dell’indecente teatro della falsa lotta alla ‘ndrangheta.
Signor Presidente,
Lei probabilmente non leggerà mai questa lettera sicuramente incompleta e di scarso valore.
Quindi lo scrivo “a futura memoria”: non si vincerà la ‘ndrangheta se lo Stato non ripenserà al suo modo di essere in Calabria.
Non ci può essere lotta alla ‘ndrangheta che non sia anche lotta per l’attuazione della Costituzione che continua a essere ignorata e calpestata soprattutto nella nostra terra.
Qualora Ella volesse vedere il punto preciso in cui la ‘ndrangheta nasce non faccia come l’on. Bindi. Non vada in elicottero a Polsi. Trovi il modo di ascoltare il rantolo profondo di quella parte della Calabria che non ha più voce.
Noi, siamo uomini di uno dei tanti “Sud” del mondo. Siamo europei collocati nel cuore del Mediterraneo.
La Repubblica Italiana nata dalla Resistenza ci appartiene e La sentiamo profondamente “nostra”!
Lo “Stato” continua a ignorarci, a combatterci e a tenerci “fuori”, a “escluderci”, commettendo un grave errore e un imperdonabile sopruso!
Nella misura in cui lo può, non lo consenta oltre Signor Presidente,
noi siamo convintamente “non violenti”, democratici, “partigiani” della Costituzione. Non abbiamo nostalgie neo-borboniche, nè idee separatiste.
Questa Terra però è piena di comprensibile rabbia, di grande amarezza, di giusta collera che potrebbe esplodere in qualsiasi momento con conseguenze facilmente prevedibili.
E non è questo che vogliamo!
Vorremmo invece che l’occasione di una Sua prossima visita fosse l’approvazione di una legge per il diritto al lavoro o per garantire la stessa assistenza sanitaria a tutti i cittadini italiani. Signor Presidente,
realizziamo un Monumento ideale a tutte le vittime di mafia, ma utilizziamo come mattoni il sacrificio di tanti innocenti finiti nelle galere, il sangue dei nostri emigranti caduti in mezzo mondo, il sudore dei nostri tenaci contadini scacciati dalla terra, l’amarezza dei nostri giovani disoccupati, le sofferenze dei nostri ammalati senza cure, l’umiliazione della Calabria diffamata.
E col sangue dei nostri martiri scriviamoci sopra “Onore, Dignità e Riscatto per il Popolo Calabrese”!
mercoledì 15 marzo 2017
sulla "forza che nasce dalla verità e dall'amore"

Eppure nella relazione illustrativa della PL viene spiegato come sia "urgente approvare ed istituire il Garante regionale per i detenuti" "in grado di intervenire (...) per migliorare le condizioni detentive e per consentire, all'interno delle stesse strutture (ndr: privative della libertà personale) l'esercizio dei diritti essenziali dell'uomo (vita, dignità, salute, religione, famiglia, istruzione, formazione, lavoro, risocializzazione)".




