mercoledì 27 dicembre 2017

Non solo Dell'Utri

La visita ispettiva del carcere di Catanzaro che la delegazione del Partito Radicale ha svolto il giorno di Natale è la cartina di tornasole del sistema penitenziario italiano in generale e di quello calabrese in particolare.
Una delegazione composta da membri dell’associazione radicale nonviolenta Abolire la Miseria -19 Maggio della quale facevano parte Giuseppe Candido (che ne è il segretario), Rocco Ruffa (tesoriere della stessa nonché membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani), Gernando Marasco (coordinatore della provincia di Vibo Valentia di Sinistra Italiana) e Daniele Armellino (membro della direzione nazionale della Gioventù Federalista Europea). Una visita, la nostra, autorizzata dal vice capo del dipartimento dott. Marco Del Gaudio ai sensi dell’art. 117 del D.P.R. 230/2000 che regolamenta l’Ordinamento Penitenziario. Ordinamento Penitenziario che ha più di 40 anni (Legge n. 354/1975) e che in questi giorni è stato oggetto di importanti modifiche avendo il Consiglio dei Ministri, dopo un lungo iter, approvato i decreti delegati che lo riformano. Molte le domande da parte dei detenuti in merito alla riforma; non si conosce ancora il contenuto dei decreti delegati; ai detenuti, che erano al corrente dell’approvazione, abbiamo solo potuto ribadire che i decreti dovranno tornare nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato perché sia verificato che siano conformi ai i principi contenuti nella Legge delega dello scorso mese di Giugno, tra i quali: il riconoscimento del diritto all’affettività in carcere; una maggiore facilità di accesso alle misure alternative alla detenzione; l’incremento delle opportunità di lavoro retribuito, sia intramurario sia esterno; il rafforzamento dell’istruzione e della formazione professionale.

Quello nella frazione Siano del comune capoluogo di regione è il carcere più popoloso della Calabria con una popolazione carceraria in aumento: si è passati dai 490 detenuti presenti alla data del 23/01/2017 ai 508 di oggi ai quali però vanno aggiunti 14 persone in permesso per trascorrere il giorno di Natale in famiglia perché autorizzati dalla Magistratura e dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP).
A conti fatti un +7% che è poco significativo se non fosse per il fatto che il carcere è sovraffollato. Secondo la “scheda trasparenza istituti penitenziari - 2017*” del Ministero della Giustizia, infatti, è vero che i posti regolamentari sono 636 ma a questo numero vanno sottratti i 205 “posti regolamentari attuali non disponibili” (come indica la scheda); si tratta, molto probabilmente, di posti che non sono disponibili perché il carcere è in ristrutturazione e - si sa - in Calabria queste ristrutturazioni possono andare avanti per molto tempo a discapito dei diritti dei detenuti: 431 posti per 522 persone vuol dire un tasso di sovraffollamento del 121%.
Un carcere, quindi, che secondo i dati che fornisce il DAP è sovraffollato ma che nella realtà - per noi che abbiamo potuto visitarlo - è messo peggio: non solo stanze di pernottamento per una persona dove si deve stare in due per 20, 22 ore al giorno, ma anche carenza di cure mediche, pochissimo lavoro a disposizione dei detenuti, carenza di acqua calda e riscaldamento (speriamo solo temporanea a causa di un’avaria) e nel complesso tanta sofferenza. E per noi che ci battiamo per l’istituzione del Garante dei detenuti della Calabria spiace constatare che - a detta di tutti i detenuti interpellati - “mai nessun magistrato di sorveglianza da quando siamo qui è venuto a ispezionare le celle”.
Non mancano le cose positive: a partire dalla Polizia penitenziaria che, seppure con turni massacranti, cerca di dare attuazione al motto che la contraddistingue: “Despondere Spem Munus Nostrum” ovvero svolgere il compito di dare speranza, continuando con gli insegnanti ai quali è affidato il duro compito di (ri-)educare queste persone spesso analfabete, per finire con il direttore - la d.ssa Angela Paravati - che (per usare le parole di un detenuto) “è di una sensibilità unica e quello che fa è encomiabile”.

Durante la visita siamo stati guidati dall’Ispettore Trifiletti che ci ha spiegato come, essendo Natale, ai detenuti - come abbiamo potuto constatare con i nostri occhi - era stato concesso di trascorrere il pranzo insieme radunandosi in poche celle per ognuno dei corridoi di sezione.
Anche noi crediamo che la decisione della direzione sia un gesto di grande sensibilità ma non possiamo restare insensibili di fronte ai casi di detenuti (più di uno) che per le loro condizioni di salute (problemi oncologici, psichiatrici o gravemente invalidanti) non dovrebbero stare in carcere e che comunque dovrebbero poter scontare la loro pena senza che sia leso il loro diritto alla salute.

Giuseppe Candido, Rocco Ruffa

domenica 5 novembre 2017

Campagna elettorale sulla pelle delle persone

"Basta lo diciamo noi a Gasparri e a chi, per speculare qualche voto sulla gente che migra, parla di malattie debellate che ritornano e istituzioni in ginocchio.

Così Rocco Ruffa, esponente radicale calabrese neoeletto nel Comitato Nazionale di Radicali Italiani, in polemica neanche troppo velata con le recenti dichiarazioni di Maurizio Gasparri sugli sbarchi, che parla di Marina umiliata, di malattie debellate che ritornano, di costi alle stelle e di ... chi più ne ha più ne metta.

"A chi specula in questo modo sulla pelle dei migranti, come Radicali siamo noi a dire basta!
Sappiamo che i flussi migratori non si possono fermare ma che invece si devono governare. 
La gente migra perché scappa da guerre, persecuzioni e carestie ma anche per la povertà dilagante nel continente africano la cui responsabilità è anche nostra, dei paesi industrializzati, che con l'inquinamento e i cambiamenti climatici provochiamo l'impoverimento di interi continenti.
Non è un caso che Gasparri parli di "clandestini" (che si possono espellere) e non già di migranti (che dobbiamo, invece, integrare come pure chiede Papa Francesco). 
Per governare il fenomeno dobbiamo meglio integrarli, e farlo come proposto nella nostra legge di iniziativa popolare sottoscritta da oltre 87 mila cittadini che prevede, tra l'altro, un'integrazione diffusa sul territorio e permessi di soggiorno temporanei per la ricerca di un lavoro
La nostra proposta di legge di iniziativa popolare mira a superare l'attuale legge Bossi-Fini che trasforma ogni immigrato in clandestino, così ingolfando le aule di giustizia con procedimenti che gli stessi magistrati definiscono inutili!"


Così in un comunicato Rocco Ruffa, tesoriere dell'associazione radicale nonviolenta Abolire la miseria – 19 Maggio, che aggiunge:

"Dobbiamo integrarli perché è "un'umanità che fa bene". Tant'è vero che per mantenere inalterata la popolazione italiana dei 15-64-enni nel prossimo decennio, considerato che gli italiani sono destinati a diminuire di 1,8 milioni, sarà necessario un aumento degli immigrati di circa 1,6 milioni di persone, con flussi di ingresso di 160 mila persone in media ogni anno.
Altro che "bloccarli"! E ricordiamo all'on. Gasparri ciò che ci spiega il presidente dell'INPS, Tito Boeri: "I migranti, pagano contributi coi quali vengono pagate oltre 600.000 pensioni di concittadini italiani".
La mozione approvata dall'ultimo congresso di Radicali Italiani (* link all'intervento congressuale), durante il quale ho avuto l'onore di essere stato rieletto, anche grazie al sostegno della 19 Maggio e della nostra presidente Mina Welby, - conclude il comunicato - non soltanto ha ringraziato i sottoscrittori della proposta di legge "Ero straniero, l'umanità che fa bene", fortemente voluta da Radicali italiani, da Emma Bonino e da numerose altre associazioni cristiane, ma ha impegnato tutti noi dirigenti per dare continuità a questa campagna con la richiesta di calendarizzazione della nostra PdL."

(* qui il link all'intervento congressuale di Rocco Ruffa al XVI Congresso di Radicali Italiani)

sabato 29 luglio 2017

Somalia, la carestia proclamata nel nome di Allah

LE STORIE. SOMALIA, LA CARESTIA PROCLAMATA NEL NOME DI ALLAH

 Valter Vecellio

Nairobi, 29 luglio 2017. Non bastavano i divieti di vario genere, che estremisti come quelli di Al Shabaab impongono sui territori che controllano: ora il gruppo terroristico somalo ha deciso di impedire alla popolazione – già vittima di un periodo di siccità senza precedenti - di accedere all'assistenza umanitaria, aggravando in modo ancor più drammatico la situazione per decine di migliaia di persone. La scelta a cui vengono posti davanti i somali è semplice: morire di fame, di stenti e malattie, oppure morire giustiziati, o al limite come scudi umani durante i bombardamenti americani. Secondo le testimonianze sul posto, centinaia di bambini e di anziani stanno già morendo in massa. Gli uomini di Al Shabaab hanno fatto sapere alla popolazione che chiunque abbia contatti con le agenzie umanitarie – percepite come avamposti del nemico - verrà considerato una spia e giustiziato come tale. Attualmente - sostengono le agenzie stesse, che negli ultimi tempi hanno dovuto diminuire di molto l'assistenza - in Somalia sono almeno 6.7 milioni le persone che avrebbero bisogno di supporto umanitario, la metà delle quali rischia di morire di fame. C'è chi ricorda come andò nel 2011, quando al Shabaab impose un blocco all'assistenza umanitaria, provocando la morte di circa 250.000 persone.

Strano dirlo nelle attuali, drammatiche condizioni, ma stavolta il gruppo terroristico sembrava aver adottato un approccio più "moderato" rispetto a sei anni fa, permettendo ad alcune Ong di operare sotto strettissimi criteri di accettazione. Da giugno, tuttavia, l'ostilità dei terroristi sembra essere aumentata. La gente di Tiyeglow sta soffrendo la fame. Al Shabaab ha improvvisamente vietato alle agenzie di raggiungere le persone che in città si trovavano in pericolo di vita. Molta gente è così partita per cercare cibo", spiega Ibrahim Abdirahman Mohammed al Guardian. "I bambini sotto ai cinque anni sono in una particolare condizione di rischio, perché il tasso di malnutrizione cresce, e se il blocco di Al Shabaab continua vedremo morire molti più bambini", avverte. Il mese scorso Save the Children ha pubblicato un report in cui si mostra come i casi di forte malnutrizione siano aumentati in quattro distretti su nove (controllati da Al Shabaab) nelle aree centrali e meridionali della Somalia. Nel distretto di Mataban, il 9.5% dei bambini sotto i cinque anni è fortemente denutrito. Più di due milioni di persone - un quinto della popolazione somala - vivono in aree controllate dall'organizzazione terroristica, che ha ripetutamente attaccato operatori umanitari e su base quotidiana attacca agenzie governative.

Più di 700.000 persone hanno già lasciato le proprie case, di cui 200.000 solo negli ultimi due mesi. Quasi tutti sono partiti per cercare cibo, come nelle peggiori carestie.

"Quando è iniziata la siccità, al Shabaab all'inizio ci ha detto che avremmo potuto accettare cibo solo da organizzazioni islamiche, ma poi alla fine hanno detto di no. Chiunque fosse trovato a portare cibo o aiuti sarebbe stato ucciso, perché sospettato di collaborare col governo somalo", spiega Abdiya Barrow, una madre di sette bambini a Tiyeglow, che ha raccontato di aver camminato circa sette giorni per raggiungere Baidoa, dove i suoi tre bambini più piccoli hanno ricevuto le prime cure per far fronte alla diarrea e alla malnutrizione. "La vita è tremenda. Non c'è cibo, non c'è acqua. La gente muore ogni giorno". Peggio è andata a chi vive in alcuni villaggi dove il controllo di Al Shabaab è talmente capillare che alle persone viene impedito di lasciare il territorio di origine. "Al Shabaab ci ha detto di non lasciare la città, perché non vogliono che la città diventi vuota. Ma non c'è nulla da mangiare. Un kilo di riso costa quasi 4 dollari. Chi può permetterselo? Le donne e i bambini stanno morendo", avverte Mohammad Osman, che vive a Baule. Secondo le autorità somale, Al Shabaab impedisce alla popolazione di scappare perché sa che se la città si svuotasse, il governo e gli Stati Uniti intensificherebbero i bombardamenti aerei. Un recente rapporto delle Nazioni Unite sostiene che la Somalia continua a vivere un "elevato rischio di carestia", acuita dal fatto che le piogge quest'anno sono state scarse.

venerdì 30 giugno 2017

Lettera aperta a Nicola Irto

Gentile direttore,

mi rivolgo a Lei nutrendo la speranza che, attraverso il suo giornale, possa parlare e rivolgermi alle istituzioni regionali calabresi. In particolare la mia lettera è rivolta al presidente del consiglio regionale Nicola Irto in qualità di primo firmatario e presentatore del progetto di legge per l'Istituzione del "Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale" e per la quale sono in sciopero della fame ormai da giorni.
Una fame che è fame di giustizia giusta e di Stato di Diritto. Uno sciopero della fame, il mio, iniziato per sostenere il digiuno di oltre un mese di Rita Bernardini rivolto ad ottenere una Legge per la “Riforma dell’Ordinamento Penitenziario” frutto degli Stati Generali sull’Esecuzione Penale che lo stesso ministro della giustizia aveva voluto e far approvare, ai sensi dell’art. 79 della Costituzione, un provvedimento legislativo di amnistia e indulto che rappresenti quella “amnistia per la Repubblica", "amnistia legalitaria", che invocava Marco Pannella contro l'amnistia strisciante costituita dalle centinaia di migliaia di prescrizioni.
Oggi, personalmente, dopo che l'onorevole Rita Bernardini ha sospeso il suo, continuo a digiunare quattro giorni alla settimana per cercare di dialogare con Lei - Presidente- e con il Consiglio Regionale tutto affinché almeno si discuta la legge sul garante regionale dei detenuti.
La mia non vuole essere una provocazione, né un rimprovero, ma - come consuetudine radicale - è una richiesta di dialogo proprio su quella proposta di legge da Lei presentata, quasi due anni fa, il 13 maggio del 2015 quando ancora non era diventato presidente del consiglio regionale.
Sono quasi due anni!, si rende conto?
Potrei dirLe che è facile -nella sua posizione- presentare una proposta di legge per fare una velina rimproverandoLe che è più difficile fare in modo che questa venga poi approvata o, quantomeno, discussa nelle competenti commissioni e nell’assemblea che Lei oggi presiede.
Mi consenta di dirLe però, caro Presidente, che quel progetto di legge consentirebbe di tutelare diritti umani fondamentali e di prevenire forme subdole di "tortura democratica" che pur nelle carceri calabresi esistono. Invece quella proposta giace ancora in Prima Commissione, arenata per l'esame di "Merito" dal 30 Giugno2015. Dove l'esame è stato rinviato perché mancava la scheda tecnico-finanziaria. È ridicolo, e ci sarebbe da ridere se non fosse che parliamo di una legge praticamente a costo zero se non quelli di funzionamento ma che consentirebbe di tutelare diritti inviolabili anche per chi è stato privato della libertà. Mancano i soldi? Ma in quattro e quattr'otto, Le ricordo, nelle aule del consiglio regionale si stava per approvare una legge per far percepire la pensione ai consiglieri regionali e, solo all'ultimo momento, si è fatto marcia indietro per ragioni di opportunità politica.
Che dire? Niente. Le chiedo, anzi, La prego di soddisfare la fame di Giustizia delle “persone private della libertà personale” e la mia, e almeno discutere la proposta di legge che Lei ha presentato. Grazie.
Ing. Rocco Ruffa, militante calabrese del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito
12-03-2017

Così come è la legge sul reato di tortura non ci piace

di Elisabetta Zamparutti*

da "Il Dubbio , 29 giugno 2017"

Il nostro Paese si appresta a varare una norma che non contempla il reato di tortura come chiaramente descritto e sancito dal diritto internazionale. L'impegno nei confronti dell'Onu di 28 anni fa non può essere considerato soddisfatto.
Il flusso incessante di richiami che provengono all'Italia dagli organismi sovranazionali, in primis il Consiglio d'Europa, con le sentenze della Corte Europea per i diritti umani sul caso Cestaro e più di recente sui risarcimenti dovuti dall'Italia per i fatti della Diaz, le raccomandazioni del Comitato europeo Prevenzione Tortura e del Comitato dei Ministri, fino alla lettera inviata dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa Nils Muiznieks ai Presidenti di Camera e Senato in merito alle criticità per la formulazione del reato di tortura che si sta introducendo, senza dimenticare il Comitato Onu sui diritti umani con il suo Rapporto sull'Italia dello scorso mese di marzo, sono a questo punto eloquenti di una violazione sistematica da parte dell'Italia di precisi standard e obblighi internazionali.

Perché quando ci si impegna, come l'Italia si è obbligata a fare 28 anni fa ratificando la Convenzione Onu contro la tortura, ad introdurre il reato di tortura e, poi, omette di farlo per oltre un quarto di secolo, allora, diventa uno Stato tecnicamente fuori legge, con ciò perdendo autorevolezza, prestigio e credibilità agli occhi della comunità internazionale. Quando poi il nostro Paese si appresta a varare una legge che non contempla il reato di tortura come chiaramente descritto e sancito dal diritto internazionale, l'impegno nei confronti dell'Onu di 28 anni fa non può essere considerato serio e pienamente soddisfatto.
Il testo che sta andando al voto alla Camera non è il reato di tortura come previsto dalla Convenzione Onu, secondo la quale "il termine "tortura" indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona 
informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona...". Chiaro, semplice.

Invece, secondo la versione italiana, la tortura non è un reato specifico, chiaramente riferito, come stabilisce la Convenzione Onu, alle violenze "inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale", ma un reato comune, commesso da chiunque, un pubblico ufficiale come un privato cittadino, un agente di polizia come un affiliato alla mafia. Non basta poi un singolo atto di inflizione di sofferenza per poter parlare di tortura, perché ci devono essere "più condotte". Quanto alle torture psicologiche, i traumi psichici dovranno essere verificabili, come se la sofferenza mentale fosse una tumefazione fisica, col suo bel livido viola evidente a tutti! Però, questo Stato, che difetta di autorevolezza agli occhi del mondo, cerca di riguadagnarla in modo autoritario, mostrando la faccia feroce perché se poi dovesse derivare volontariamente la morte, infligge l'ergastolo!
Infine il "tana libera tutti", perché non si può parlare di tortura "nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti", né si trova nella legge un riferimento al fatto che le sofferenze siano "segnatamente volte ad ottenere informazioni o confessioni" come si legge nella Convenzione Onu.

Non mi stupisce se penso che nel nostro Paese esiste quella forma di "tortura democratica" che, insieme all'ergastolo ostativo, è il 41- bis rispetto al quale il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha ritenuto, di fronte alla giustificazione delle autorità italiane che la particolare afflittività è necessaria per contrastare la criminalità organizzata e proteggere la società, che fosse poco convincente e che si potesse ritenere invece che l'obiettivo di fondo fosse "piuttosto quello di utilizzare le ulteriori restrizioni come strumento per aumentare la pressione sui prigionieri in questione, al fine di indurli a collaborare con la giustizia" in contrasto con il dettato costituzionale e gli obblighi internazionalmente sottoscritti.
Si può anche fingere di non vedere, di non sapere ma c'è chi comunque ci guarda e ci osserva e queste sono le organizzazioni sovranazionali a cui come Partito Radicale e Nessuno tocchi Caino continueremo a rivolgerci. Sento già il governo spiegare a Strasburgo come a Ginevra che "Ecco, abbiamo provveduto ad introdurre il reato di tortura!". Lì però ci saremo anche noi, a spiegare che quello introdotto non è il reato di tortura. Lo faremo in sede di Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa quando valuterà la posizione del Governo sui casi oggetto delle sentenze della Cedu e lo faremo al Comitato Onu contro la Tortura dove l'Italia sarà esaminata il prossimo novembre.

*Presidenza Partito Radicale e Comitato europeo per la prevenzione della tortura per conto dell'Italia

mercoledì 31 maggio 2017

Qui non si parla degli EBREI

di Valter Vecellio

(titolo originale: MANCHESTER VICINA, KABUL LONTANA?)

 


   Londra dista meno di 2.000 chilometri da Roma. Manchester circa 2.200. Parigi meno di 1.500. Berlino 1.500 circa. Kabul oltre 6.500. Poi, vuoi mettere: a Parigi, Londra, Berlino sono bianchi (ancora, almeno). In Afghanistan scuri di pelle, quasi neri… Sì, è vero, anche il loro sangue è rosso. Ve lo ricordate il monologo di Shylock ne “Il mercante di Venezia” di Shakeaspeare? “Non ha forse occhi un ebreo? Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni? Non si nutre egli forse dello stesso cibo di cui si nutre un cristiano? Non viene ferito forse dalle stesse armi? Non è soggetto alle sue stesse malattie? Non è curato e guarito dagli stessi rimedi? E non è infine scaldato e raggelato dallo stesso inverno e dalla stessa estate che un cristiano? Se ci pungete non versiamo sangue, forse?...

   Ecco, al posto di ebreo ci si può mettere copto, yazidi,  curdo, nero, come “ieri” italiano-macaroni-dago, polacco, irlandese…il resto va sempre bene…

    La polizia afgana parla di oltre 80 morti e di centinaia di feriti, provocati dall’ultimo attentato targato ISIS; tanti ragazzini, anche; ventisette giorni dopo un altro attentato, che ha ucciso “appena” otto persone. Magari a questo si presterà una briciola in più di attenzione: anche un ospedale di Emergency è rimasto coinvolto; ma non troppa, che si parla “solo” di danni: gli operatori della struttura stanno bene. Dunque, si volti pure pagina…

   Però, forse, in questa pagina non sarebbe male restare. In Afghanistan, Stati Uniti e alleati sono intervenuti nell’autunno del 2001. C’era stata la strage alle Twin Towers, Osama bin Laden aveva scatenato la sua guerra santa, i taleban lo proteggevano… E dopo l’Afghanistan, ecco l’Irak di Saddam. L’inquilino alla Casa Bianca era George W. Bush, che ora trascorre quieto il suo tempo nel ranch di Crawford: dipingere ritratti di veterani caduti in combattimento, “Portraits of courage”, “tributi di un Comandante in capo ai guerrieri americani”.

   “Mission accomplished” dice Bush il 1 maggio 2003, nel suo discorso sulla portaerei “USS Abraham Lincoln”; è la frase che di solito si pronuncia al termine di una missione. Doveva essere l’annuncio della fine delle operazioni militari. Vediamo bene, che la missione non è per nulla “accomplished”: Bush non è più presidente; e neppure Barack Obama I e II; oggi c’è Donald Trump, e la missione è ancora in corso.

    Converrebbe restarci, nella pagina afgana. Inutile fare gli struzzi e nascondere la testa sotto la sabbia.

   Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite il 2016 è l’anno con il maggior numero di vittime di attentati terroristici, a Kabul e dintorni: oltre 11mila fra morti e feriti gravi documentati (non si saprà mai quanti, tra loro, sono sopravvissuti). Le milizie islamiste occupano il 10 per cento del territorio afgano, e ne contendono un buon 30 per cento. Il governo di Kabul, insomma, controlla poco più del 50 per cento del paese. Siamo al sedicesimo anno di conflitto. Gli Stati Uniti e l’Occidente non ne sono venuti a capo. Gli analisti dicono, concordi, che per sciogliere qualche nodo occorrerà inghiottire, piaccia o no, qualche amaro boccone. Si chiama, questo boccone amaro, compromesso politico con i taleban. Potrà essere più o meno disonorevole, umiliante, ma questo è.

   Onore, orgoglio e umiliazione a parte, c’è che i taleban non sono un blocco unico, un monolite. Sono una galassia polverizzata e divisa al suo interno; e ogni clan persegue una sua finalità: c’è chi vuole dominare una fetta di territorio; c’è chi vagheggia un emirato islamico; c’è chi ha dei conti da regolare con l’attuale regime che sgoverna Kabul. Poi, ovviamente si giocano partite al di fuori dei confini. I russi di Vladimir Putin non stanno certo a guardare; e neppure il Pakistan, che da sempre sostiene i taleban e interferisce boicottando ogni possibile trattativa; da sempre le forze armate pakistane, e i potentissimi servizi segreti di quel paese hanno solidi legami con i taleban. L’attuale presidente Ashraf Ghani Ahmadzai cammina su un tappeto di chiodi acuminati: presiede un governo dilaniato da continue rivalità e faide etniche; la corruzione dilaga, pessima l’amministrazione centrale e locale: satrapie occupate in furti e spoliazioni programmatiche e sistematiche. In questo contesto lo sfruttamento e il contrabbando di materie prime (minerali, marmo), ma soprattutto la coltivazione e lo smercio di droga sono moneta corrente. Diciamo che si parla di milioni di euro di ricavato che in buona parte vengono utilizzati per alimentare i conflitti, la cui ragion d’essere si trova nel poter continuare a lucrare con i traffici illeciti. L’Afghanistan è un ginepraio con il quale si dovranno fare i conti per decenni. Questo è il “dossier” Afghanistan.

    Il camion bomba fatto esplodere a Zanbaq Square (una delle zone più protette di Kabul, figuriamoci le altre), questo ci dice. Si volti pure pagina, ora; ma quei 6.500 chilometri che ci separano dall’Afghanistan sono molto più vicini di quanto si creda.

sabato 8 aprile 2017

Il giornalista che è in me

““La staffetta radicale di fame e sete di iscritti al PRNTT".

5 giorni in tutto di sciopero della fame e 2 giorni di sciopero della sete:

Questo lo sforzo di due militanti radicali che scioperando da oltre un mese chiedono inascoltati che anche la Calabria sia dotata di un garante dei detenuti.

Con un giorno a settimana di sciopero della fame e della sete lo storico militante del Partito Radicale il prof. Giuseppe Candido chiede che le istituzioni calabresi, a partire dal Consiglio Regionale della Calabria, istituisca la figura del Garante delle persone private della libertà.

Questa iniziativa nonviolenta è aggravata con l’autoriduzione di insulina, farmaco salvavita del quale -seppur sotto stretta osservazione clinica- lo scrittore, giornalista, geologo, calabrese ha bisogno per combattere il diabete.

“Il presidente Irto, quando ancora era un ‘semplice' consigliere regionale, presentò un disegno di legge in tal senso (la PL 14/10^, nota del redattore) che da due anni giace in qualche stanza di Palazzo Campanella dimenticata" specifica Candido.

“la mia battaglia -lo stesso Candido precisa- è condivisa dal compagno Rocco Ruffa che dallo scorso Febbraio digiuna quattro giorni a settimana con l’aggiunta di 24 ore di sciopero della sete".

I due radicali, dopo aver visitato più e più volte le carceri calabresi denunciano le condizioni di sospensione della legalità in cui il sistema penitenziario versa.

“Molti detenuti, seppur malati non godono del diritto alla salute; la quasi totalità non può accedere a forme rieducative essenziali come il lavoro, lo studio, l’affettività a causa di carenze strutturali di agenti di Polizia Penitenziaria, educatori, personale amministrativo, magistrati di sorveglianza" - specifica Ruffa nel comunicato radicale.

“la nostra battaglia, con il vitale sostegno dei mezzi d’informazione, serve a sensibilizzare i nostri concittadini che ignorano che ‘le carceri italiane sono criminogene’ (parole del Ministro della Giustizia Andrea Orlando - ndr) e quindi non fanno che peggiorare il già precario tessuto sociale calabrese" leggiamo nel comunicato.

venerdì 24 marzo 2017

GIUSTIZIA: L’OTTIMO CONSIGLIO DI BENEDETTO CROCE (NEL 1911): STATE LONTANI DAI TRIBUNALI

di Valter Vecellio

 

  La lettera è di Benedetto Croce, indirizzata a Giovanni Amendola la data è del 1 giugno1911. Croce racconta di una disavventura giudiziaria capitata a Giuseppe Prezzolini. Si chiude con un consiglio: stare quanto più possibile lontano dai tribunali. Croce non è un estremista anarcoide; è un liberale con il senso dello Stato e delle istituzioni; e tuttavia, quando si tratta dei tribunali, consiglia prudenza e cautela. Un po’ come per la superstizione: Croce non crede alla jella: “Ma prendo le mie precauzioni”.

  A Croce, al suo “consiglio”, alle sue “precauzioni”, mi viene da pensare nel leggere i risultati di un sondaggio demoscopico secondo le quali un italiano su due ha poca o nessuna fiducia nei confronti dei magistrati e del modo in cui applicano le leggi di cui, purtroppo, questo paese è infarcito. Confesso che comprendo molto bene questo italiano su due timoroso; e fatico a comprendere come, al contrario, ci sia un italiano su due che questo timore non lo coltivi.

  Lui lo dice con il sorriso tra le labbra; io lo penso seriamente: sono d’accordo con il presidente dell’Associazione Nazionale dei Magistrati Piercamillo Davigo: “Pensavo peggio, temevo stessimo a zero”.

  Il dottor Davigo si “consola” dicendo che “il consenso nei nostri confronti è cresciuto, dopo anni  di campagna martellante contro la magistratura dovrebbe essere a zero”. Non appare molto allarmato da quanto emerge dal sondaggio; e già questo è allarmante. Allarma. Un allarme che deriva, probabilmente, dal fatto che si appartiene a quella scuola di pensiero che affonda le sue radici in Emile Zola, le cui notti, diceva, “sarebbero state un incubo al solo terribile pensiero di un innocente che sconta una colpa che non ha commesso”. Sarà preda di incubi, lo sarà mai stato, il dottor Davigo?

   Non sarebbe male (sarebbe anzi doveroso) che il magistrato si chieda se non sia anche lui, con il suo “fare” (o non “fare”, beninteso) responsabile del modo in cui viene  “percepito”. Il dottor Davigo parla di “campagna martellante contro la magistratura”; verrebbe da rispondergli con Dante: “…credo ch’un spirto del mio sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa…”. Ma non è cosa da potersi liquidare con una battuta, con un verso, sia pure di Dante. 

  Due terzi degli italiani dice di non credere nella giustizia;  il 69 per cento degli interpellati ritiene che “settori della magistratura perseguano fini politici”. Dottor Davigo: non c’è proprio nulla di che scherzare.

  Purtroppo, tocca ancora una volta, dire: “Heri dicebamus”. Giusto trent’anni fa i radicali di Marco Pannella, con socialisti di Bettino Craxi e liberali di Alfredo Biondi, raccolgono le firme per tre referendum sulla giustizia. Referendum, se lo ricordano nei “Palazzi” del potere?, che si concludono con una netta affermazione dei SI. Poi il Parlamento approva la cosiddetta legge Vassalli, che però va in senso esattamente contrario al voto popolare(ma è quello ardentemente voluto dai predecessori del dottor Davigo).

  Gli italiani, in stragrande maggioranza, vogliono che sia introdotta la responsabilità civile dei magistrati, perché, per capirci, non si ripetano più casi come quelli di Enzo Tortora. Chiedono che i magistrati fuori ruolo tornino alle loro funzioni originarie. Chiedono che l’uso della custodia cautelare e il carcere preventivo si applichino solo per reati gravi. Chiedono la separazione delle carriere dei magistrati, perché il cittadino sia giudicato da un “giudice terzo”, obiettivo e imparziale.

  A leggere i quesiti referendari di allora non ce n’è uno che non valga oggi, per l’oggi. A chi obietta che si tratta di proposte ad uso (e abuso) di politici che hanno qualcosa da rimproverarsi, è sufficiente rispondere con le parole di Giovanni Falcone: “…un sistema accusatorio parte dal presupposto di un PM che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienza, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice, non essere come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carattere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e PM siano, in realtà indistinguibili gli uni dagli altri…”.

   Ancora: “Ora sul piano del concreto svolgersi dell’attività del PM, non può non riconoscersi che i confini fra obbligatorietà e discrezionalità sono assolutamente labili e, soprattutto, che la discrezionalità è, in una certa misura, un dato fisiologico e, quindi, ineliminabile nell’attività dl PM. Ed allora, se vogliamo realisticamente affrontare i problemi, evitando di rifugiarsi nel comodo ossequio formale dei principi, dobbiamo riconoscere che il vero problema è quello del controllo e della responsabilità del PM per l’esercizio delle sue funzioni… Mi sembra giunto, quindi, il momento di razionalizzare e coordinare l’attività del PM finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticista della obbligatorietà dell’azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli della sua attività…” (dall’intervento al convegno di Studi Giuridici di Senigallia, 15 marzo 1990).

   Anni fa Leonardo Sciascia si chiedeva: “Qual è la situazione? Un giovane esce dall’Università con una laurea in giurisprudenza; senza alcuna pratica forense e con poca esperienza, direbbe Manzoni, del ‘cuore umano’, si presenta ad un concorso; lo supera svolgendo temi inerenti astrattamente al diritto e rispondendo a dei quesiti ugualmente astratti e da quel momento entra nella sfera di un potere assolutamente indipendente da ogni altro; un potere che non somiglia a nessun altro che sia possibile conseguire attraverso un corso di studi di uguale durata, attraverso una uguale intelligenza e diligenza di studio, attraverso un concorso superato con uguale quantità di conoscenza dottrinaria e con uguale fatica…”.

  E dunque l’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia (e crisi è forse parola troppo leggera) deriva principalmente dal fatto che “una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio… Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto”. E’ amaro trent’anni dopo dirci le stesse cose.

  Vero è, dottor Davigo, quello che annotava, secoli fa, Cesare Beccaria: “Il giudice non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto”. E dunque, torna buono il cauteloso consiglio di Croce con cui questa nota è cominciata.

mercoledì 22 marzo 2017

SE IL MAGISTRATO E IL FIGLIO DEL NARCO-TRAFFICANTE ARRIVANO ALLE STESSE CONCLUSIONI…


di Valter Vecellio

Se il magistrato e il figlio del narco-trafficante arrivano alle stesse conclusioni ...

“Coincidenze”, che tuttavia un loro significato devono pur averle.
Il presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone “riflette” ad alta voce sui modi più efficaci per contrastare il traffico di droga; confida: “Ero assolutamente contrario all’idea della legalizzazione, perché non mi convinceva gran parte degli argomenti. Adesso ho un po’ cambiato posizione”.
   Cantone si pone una domanda, che è la domanda: “Una legalizzazione di droga controllata, anche nella modalità di vendita, non potrebbe avere effetti migliori rispetto allo spaccio che avviene alla luce del giorno nella totale e assoluta impunità che riguarda amplissime fasce della popolazione giovanile?”.
   E ancora: “E’ un po’ ipocrisia all’italiana, ci nascondiamo dietro il proibizionismo sapendo che quelle norme servono a riempire le carceri, di extracomunitari in gran parte, e nessuno si preoccupa del fenomeno che cresce”.
   Quasi contemporaneamente, in un albergo romano, ho incontrato un quarantenne colombiano, con un nome “pesante”: Juan Pablo Escobar, figlio del famigerato narco-trafficante. Qualcuno se lo ricorderà: feroce, spietato, ucciso nel 1993 a Medellin. A un certo punto lui e la sua banda di narco-trafficanti sono giunti a controllare circa l’80 per cento della produzione della cocaina, era ricchissimo, potentissimo. Per molti anni in Colombia lui e i suoi complici hanno fatto il buono e il cattivo tempo, e potevano contare su ramificate e potenti complicità: nel suo paese e in tutti gli stati americani, Stati Uniti compresi. Fino a quando, evidentemente, ha fatto il passo più lungo della gamba, fino a quando ha dato davvero troppo fastidio ai suoi complici e protettori; così, come spesso accade, e non solo in Colombia, lo hanno “venduto”, ed eliminato. Juan Pablo ha una quarantina d’anni; non ha nulla a che fare con il mondo del padre, fa l’architetto, vive in Argentina; quando hanno ammazzato il padre, con la famiglia ha lasciato il paese, per anni, nel timore di vendette e ritorsioni ha vissuto da clandestino; poi ha detto basta, e ha ripreso il suo nome. Da qualche tempo tiene anche conferenze, incontra i figli delle vittime del padre, lavora per quella che chiama “la necessaria riconciliazione”, racconta la sua esperienza di figlio di uno dei più conosciuti e potenti narco-trafficanti del mondo. Ha scritto un libro,  “Gli ultimi segreti dei Narcos”, pubblicato in Italia da Newton Compton. Descrive il padre, che ha conosciuto solo da bambino, come persona affettuosa, protettiva. Non stupisce: accade che i criminali siano ottimi genitori; anche i macellai  nazisti di giorno uccidevano migliaia di ebrei nelle camere a gas; la sera giocavano con i figli e amabilmente suonavano il pianoforte. Juan Pablo scopre chi è realmente padre quando ha sette anni, è lui che glielo dice. Racconta che suo padre certamente è responsabile al cento per cento per quello che ha fatto, ma che al tempo stesso è stato utilizzato politicamente: aveva relazioni inconfessabili con la CIA americana, per le attività anticomuniste nel centro e nel sud America e in particolare contro il Nicaragua sandinista. Capitoli di storia, dice, ancora tutti da scrivere.
   Sono trascorsi più di vent’anni da quando Pablo Escobar è stato ucciso. Gli chiedo com’è, oggi, la situazione. “Possono uccidere, in un giorno solo tutti i narco-trafficanti, risponde, ci sarà sempre qualcuno che sarà pronto a prendere il loro posto, e aggiunge: se possibile, la situazione è perfino peggiorata. Solo se ne parla di meno”.
Gli chiedo quale può essere secondo lui il possibile rimedio. “La legalizzazione della droga”, risponde senza esitazione. Me lo faccio ripetere, nel timore di non aver ben compreso, anche se il suo spagnolo è molto semplice e chiaro: “Legalizzare”, scandisce. “Lo dice la storia: la politica proibizionista è completamente fallita. Ha solo arricchito i narco-trafficanti. Se la droga fosse stata legale trent’anni fa, mio padre e tanti altri come lui non ci sarebbero mai stati”. Curioso che nelle stesse ore un magistrato impegnato nella lotta alla corruzione e il figlio di uno dei più sanguinari narco-trafficanti del mondo giungano alla stessa conclusione; e prima di Cantone, più o meno nello stesso modo si era espresso il responsabile della Direzione Nazionale Antimafia Franco Roberti; e altri ancora.
   Quanto basta per occuparsene, dal punto di vista giornalistico, conoscere i motivi per cui si arriva a queste conclusioni, si avanzano queste proposte. Naturalmente non se ne farà nulla. Al massimo, obtorto collo, accadrà di assistere a stucchevoli dibattiti dove uno dice le ragioni del SI e un altro quelle del NO. Perché da quando si è inventata questa maledetta par condicio bisogna sempre e comunque che ci sia un favorevole e un contrario. Non basta far conoscere in modo “neutro” e completo che cosa si propone e perché.
   Anche in passato: se si voleva informare come sia necessario vaccinarsi contro il morbillo o la meningite, ecco che bisogna che in studio ci sia qualcuno che dice che il vaccino “è cattivo”, e poco importa se allo scienziato si oppone un esperto di canzonette anni Settanta. Così, per sapere perché qualcuno che lavora sul campo suggerisce di farla finita con la legge Fini-Giovanardi e percorrere altre strade, bisognerà “obbligatoriamente” ospitare anche il parere di chi, senza alcuna preparazione e cognizione, ci assicura che uno spinello è qualcosa di demoniaco.
   D’accordo, il “battibecco” è meglio dell’attuale silenzio. Ma non sarebbe ora di piantarla con questa parossistica par condicio e limitarsi a informare e raccontare i fatti, man mano che accadono?

domenica 19 marzo 2017

La Calabria è antimafiosa

di Ilario Ammendolia

Benvenuto Signor Presidente,
È così tanto il rispetto che proviamo nei Suoi confronti e per il Suo ruolo che non Le faremo il torto di scrivere una lettera retorica e ruffiana.
Lei è il terzo presidente della Repubblica che viene nella nostra Terra. Pochi anni fa, all’indomani del delitto Fortugno, abbiamo avuto la presenza di Carlo Azeglio Ciampi. Oggi Lei è qui perché la Locride è stata scelta - e non a caso - come luogo di incontro dei familiari delle vittime delle mafie.
Ancor prima è venuto il presidente Giuseppe Saragat e ha visitato San Luca per rendere omaggio alla memoria di Corrado Alvaro. Il nostro conterraneo, importante scrittore e giornalista, che qualche anno prima aveva scritto un editoriale sul Corriere della Sera in cui affermava che i calabresi si sentivano altra cosa rispetto allo Stato perché  lo Stato aveva abbandonato la Calabria.
Editoriale più attuale che mai!
In Aspromonte, Saragat non ha parlato di ‘ndrangheta e non perché fosse reticente. In quegli anni, in gran parte della Calabria la mafia non c’era affatto, esisteva in qualche angolo remoto ed era, comunque, un fenomeno assolutamente marginale... I “mafiosi” si riunivano in qualche oscuro anfratto per parlare di “corna”, di “onore”, o del furto di qualche animale.
Le cose sono cambiate quando è iniziata un’opera di distruzione sistematica del nostro fragile (ma dignitoso) apparato produttivo e la conseguente fine della nostra civiltà. In poco tempo le terre divennero incolte, le montagne arse, le mille  botteghe artigianali chiuse, le piccole industrie conobbero una crisi senza fine.
Lo “Stato” ha programmato un esodo di massa perché invece di creare lavoro al Sud è stato più comodo spostare manodopera a basso costo verso il Centro-Nord. Una scelta calata dall’alto che fece diventare i nostri paesi spettrali, le strade deserte, le case ruderi di alcun valore. A un popolo di lavoratori instancabili e tenaci è stato inoculato il virus dello scrocco, dell’assistenzialismo, del vagabondaggio, della subalternità.
Da questa scelta tragica e scellerata nasce la ‘ndrangheta!
Non giudichi col metro della mafia siciliana o della camorra napoletana che hanno altre origini e altra storia.
È doloroso dirlo ma in Calabria, per decenni lo Stato ha generato ‘ndrangheta  senza mai combatterla! Anzi vi sono stati ministri e alti rappresentanti dello “Stato” che l’hanno utilizzata come strumento di governo. Si pensi al summit di Montalto!
Oggi  verranno letti i nomi delle vittime di mafia. Non conosco il loro numero, ma so bene che vanno tutte onorate, perché sono tutte “nostre” allo stesso modo.
Nella stragrande maggioranza si tratta di commercianti, muratori, agricoltori, liberi professionisti. Rocco Gatto era un mugnaio, Marino un bravissimo chirurgo, Scuteri un muratore, Simonetta un avvocato, De Maio un sindaco, Futia un dipendente comunale, la signora Speziale una donna molto stimata nella sua comunità. Potrei continuare all’infinito….
Per fortuna nostra - e lo diciamo con autentico sollievo - non è mai stato toccato un solo capello, nè forata la gomma di una bicicletta a un magistrato, a un deputato, a un questore, a un prefetto. Ne consegue che le centinaia di  vittime della ‘ndrangheta uccise in questi ultimi trenta anni appartengono al popolo calabrese.
Rifletta Signor Presidente,
le vittime sono carne e sangue del nostro popolo ma sul banco degli imputati sono riusciti a mettere “i calabresi” con un’opera di diffamazione lucida e calcolata che non ha riscontri nella storia.
Chi clicca Calabria vi troverà a fianco la parola ndrangheta! È questa la vittoria di coloro che hanno voluto ridurre la Calabria a una sola dimensione: quella criminale!
L’hanno fatto per logiche di potere esterne e contro la nostra Regione e che nulla hanno a che vedere con la lotta alla ‘ndrangheta.
Io apprezzo i sacrifici di coloro che combattono la criminalità ma, al di là della loro volontà, molti degli “eroi” che occupano la scena sono stati funzionali a questo perverso disegno.
Le darò un riscontro inoppugnabile.
Dinanzi alle migliaia di vittime di mafia vi sono almeno il doppio di vittime innocenti della “giustizia”.
Non parlo di errori giudiziari ma di innocenti finiti in carcere. È forte e legittimo il sospetto che l’alto numero degli incatenati sia servito per conquistare le prime pagine dei giornali e i titoli di apertura delle televisioni nazionali. In due sole “brillanti operazioni” (leggi giustizia sommaria) oltre duecento innocenti hanno varcato le porte del carcere: vittime di una strategia antimeridionale che grida vendetta al Cielo. Di molti di loro rivedo il volto : alcuni morti di infarto, altri di angoscia, molti di crepacuore. 
Oggi, sono molti a dire che il popolo calabrese non partecipa alla “lotta alla ndrangheta”. Si tratta di un falso storico, di un luogo comune, di un paradigma che va corretto perché in questi anni l’unico argine che ha retto all’espansione mafiosa è stato quello costruito - in silenzio e a prezzo di enormi sacrifici e di molte vittime - dal popolo calabrese. È vero invece che i calabresi si rifiutano di diventare marionette dell’indecente teatro della falsa lotta alla ‘ndrangheta.
Signor Presidente,
Lei probabilmente non leggerà mai questa lettera sicuramente incompleta e di scarso valore.
Quindi lo scrivo “a futura memoria”: non si vincerà la ‘ndrangheta se lo Stato non ripenserà al suo modo di essere in Calabria. 
Non ci può essere lotta alla ‘ndrangheta che non sia anche lotta per l’attuazione della Costituzione che continua a essere ignorata e calpestata soprattutto nella nostra terra.
Qualora Ella volesse vedere il punto preciso in cui la ‘ndrangheta nasce non faccia come l’on. Bindi. Non vada in elicottero a Polsi. Trovi il modo di ascoltare il rantolo profondo di quella parte della Calabria che non ha più voce.
Noi, siamo uomini di uno dei tanti “Sud” del mondo. Siamo  europei collocati nel cuore del Mediterraneo.
La Repubblica Italiana nata dalla Resistenza ci appartiene e La sentiamo profondamente “nostra”!
Lo “Stato” continua a ignorarci, a combatterci e a tenerci “fuori”, a “escluderci”, commettendo un grave errore e un imperdonabile sopruso!
Nella misura in cui lo può, non lo consenta oltre Signor Presidente,
noi siamo convintamente “non violenti”, democratici, “partigiani” della Costituzione. Non abbiamo nostalgie neo-borboniche, nè idee separatiste.
Questa Terra però è piena di comprensibile rabbia, di grande amarezza, di giusta collera che potrebbe esplodere in qualsiasi momento con conseguenze facilmente prevedibili.
E non è questo che vogliamo!
Vorremmo invece che l’occasione di una Sua prossima visita fosse l’approvazione di una legge per il diritto al lavoro o per garantire la stessa assistenza sanitaria a tutti i cittadini italiani. Signor Presidente,
realizziamo un Monumento ideale a tutte le vittime di mafia, ma utilizziamo come mattoni il sacrificio di tanti innocenti finiti nelle galere, il sangue dei nostri emigranti caduti in mezzo mondo, il sudore dei nostri tenaci contadini scacciati dalla terra, l’amarezza dei nostri giovani disoccupati, le sofferenze dei nostri ammalati senza cure,  l’umiliazione della Calabria diffamata.
E col sangue dei nostri martiri scriviamoci sopra “Onore, Dignità e Riscatto per il Popolo Calabrese”!

mercoledì 15 marzo 2017

sulla "forza che nasce dalla verità e dall'amore"



"Insistenza per la verità", "nonviolenza", "forza dell'amore", ... questi sono i significati che vanno abbinati al termine satyagraha che umilmente cerco di praticare come hanno fatto prima di me giganti del calibro di Mohandas Karamchand Gandhi (detto Mahatma), Martin Luther King, Giacinto Pannella (detto Marco).
La mia consiste in 4 giorni consecutivi di sciopero della fame con l'aggravio di un giorno di sciopero della sete ogni settimana: questa settimana si concluderà alla mezzanotte di venerdì 17 o anche prima se le persone alle quali è rivolto il mio appello vorranno prestare ascolto alla mia richiesta.

Una richiesta semplice: sapere che fine ha fatto la proposta di legge per istituire il Garante calabrese dei detenuti.
Da due anni, infatti, la proposta di legge (la numero 34/10^ del 2015) per istituire la figura del "Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale" -a prima firma del Presidente Nicola Irto- giace nelle stanze del Consiglio Regionale della Calabria dimenticata

Eppure nella relazione illustrativa della PL viene spiegato come sia "urgente approvare ed istituire il Garante regionale per i detenuti" "in grado di intervenire (...) per migliorare le condizioni detentive e per consentire, all'interno delle stesse strutture (ndr: privative della libertà personale) l'esercizio dei diritti essenziali dell'uomo (vita, dignità, salute, religione, famiglia, istruzione, formazione, lavoro, risocializzazione)".

L'urgenza non è cessata ma si è aggravata dal 2015 ad oggi: stando ai dati diffusi dal DAP (dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) e a quelli da noi ottenuti nel corso delle visite ispettive effettuate da Giuseppe Candido e dal sottoscritto come delegazione del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito nel corso degli ultimi 3 anni il sovraffollamento, dopo un leggero calo, è ricominciato a salire; le (insufficienti) piante organiche della Polizia Penitenziaria e della Magistratura di Sorveglianza sono decresciute anziché aumentare; la possibilità di salvaguardare l'integrità psicologica dei detenuti a cominciare dalla salvaguardia dei legami affettivi con i propri cari continua ad esser ridotta ad un lumicino; le attività rieducative (culturali e lavorative) sono rimaste "ferme al palo" condannando i detenuti ad una pena nella pena: l'impossibilità di essere debitamente rieducati secondo quanto stabilisce l'articolo 27 della nostra Costituzione.

Grazie a tutte le testate giornalistiche che in queste settimane si sono dimostrate sensibili alla mia iniziativa nonviolenta, a cominciare da Radio Radicale da sempre in prima linea nella diffusione delle tematiche legate alla Giustizia e al carcere.
 

Di seguito il collegamento alla pagina di che contiene l'intervista che mi è stata fatta da Cristiana Pugliese:

mercoledì 8 marzo 2017

"La durata è la forma delle cose"

Rocco Ruffa (Partito Radicale Nonviolento): in sciopero della fame per il Garante Regionale dei detenuti


Vibo Valentia, 8/3/2017 18:30
Rocco Ruffa, militante del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, continua il satyagraha (metodo di lotta politica fondato sulla nonviolenza) per l'istituzione del Garante Regionale dei detenuti e delle persone private della libertà.


"Come ogni settimana, proseguo la mia battaglia con 4 giorni di sciopero della fame che si concluderanno Domenica 12 Marzo".

Questa nuova battaglia (dopo quella portata avanti assieme a Giuseppe Candido per tutto il 2016) ha avuto inizio il 5 Febbraio scorso con l'iniziativa nonviolenta di Rita Bernardini.

"A sostegno della battaglia dell'On. Rita Bernardini in "digiuno di dialogo" dal 5 Febbraio scorso, ho intrapreso questa battaglia perché ne condivido pienamente le motivazioni: Stralcio della riforma dell'Ordinamento Penitenziario dalla complessiva riforma del processo penale in corso al Senato della Repubblica e urgente emanazione di un provvedimento di amnistia e indulto (art. 79 della Costituzione) per far rientrare lo Stato Italiano nella sua stessa legalità che viola apertamente non rispettando gli artt. 3 e 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (sui trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti e sulla irragionevole durate dei processi)".

Proprio oggi, l'On. Bernardini ha ricevuto prova di apertura al dialogo da parte delle istituzioni; questo pomeriggio, infatti, assieme ad una delegazione del Partito Radicale, è stata ricevuta dal Ministro Andrea Orlando che ha espresso parole di elogio nei confronti della ex-parlamentare radicale.

"Salutando con favore l'iniziativa del Ministro che ha voluto ricevere Rita Bernardini interrompo lo sciopero della sete che inizialmente avevo previsto" - prosegue Ruffa - "Ma il ritardo con cui le istituzioni calabresi si occupano del Disegno di Legge a prima firma del Presidente Nicola Irto per l'istituzione della  figura del garante -che la legge prevede in ogni regione- è inaccettabile".

Avendo preso parte alle visite ispettive condotte da Giuseppe Candido (direttore editoriale del periodico Abolire la miseria della Calabria e anch'egli militante storico del partito della nonviolenza) in tutte le carceri calabresi, è stato possibile accertare le gravi carenze che si ripercuotono anche sugli agenti della Polizia Penitenziaria. "La necessità di istituire una figura di garanzia che accerti l'effettività rieducativa delle pene alle quali i detenuti hanno diritto (art. 27 della Costituzione) è imprescindibile e deve essere messa al più presto all'ordine del giorno dell'agenda politica calabrese" conclude lo stesso Ruffa.

mercoledì 1 marzo 2017

L'eutanasia, la Giustizia e lo Stato di diritto


In questi giorni molti hanno saputo -attraverso i mezzi di informazione- della morta di Dj Fabo e di come essa sia avvenuta:
Fabiano Antoniani si è tolto la vita in una clinica svizzera dove ha ingerito un veleno ovvero ha potuto ricevere l’eutanasia.
La sua morte, sicuramente, sarebbe passata in silenzio se non fosse stato per l’azione nonviolenta di disobbedienza civile di Marco Cappato - tesoriere dell’associazione Luca Coscioni - che lo ha accompagnato fino in Svizzera.
Per aver aiutato una persona seppur consenziente a morire, Marco Cappato ha dovuto violare l’art. 580 del Codice penale che punisce chi istiga o presta il suo aiuto al suicidio con una pena che va dai 5 ai 12 anni di reclusione (ma rischia fino a 14 anni secondo l’avv. Filomena Gallo, segretario della stessa associazione).

I radicali sono “politici” di rango che utilizzano la nonviolenza e la disobbedienza civile per combattere leggi ingiuste, per chiedere allo Stato di non violare le sue stesse leggi, per chiedere al Parlamento di legiferare nella difesa dei diritti umani di tutti i cittadini.
Il merito dei radicali in questi decenni, anche grazie alle battaglie e agli insegnamenti di Marco Pannella, è stato quello di avere innescato un dibattito pubblico su temi che il resto dei partiti politici avrebbe voluto trattare in disparte, nel chiuso di una stanza, senza interferenze dell’opinione pubblica: è il caso della obiezione di coscienza, del divorzio, dell’aborto, del finanziamento pubblico ai partiti e via dicendo.

E se oggi sul tema dell’eutanasia e delle disposizioni di fine vita si è riusciti a bucare il “muro del silenzio”, altre volte l’indisponibilità a trattare certi temi ha raggiunto e raggiunge i limiti della censura: è il caso di Rita Bernardini che per la legalizzazione della cannabis e per la riforma della Giustizia da anni si batte strenuamente.
Quanti di voi sanno che oggi, 1 Marzo 2017, Rita Bernardini è al suo 24° giorno di sciopero ella fame? E quanti sanno le motivazioni per le quali conduce questa forma di lotta nonviolenta così estrema?
L’On. Bernardini, chiede una legge di amnistia e indulto, propedeutica ad una vera riforma della Giustizia, e chiede contestualmente lo stralcio della riforma dell’Ordinamento Penitenziario dalla generica riforma del Processo penale incardinata al Senato, che corre il serio rischio di non vedere mai la luce.
Nel tentativo di dare forza alla battaglia dell’On. Bernardini e nella speranza di aprire uno spiraglio nel mondo dell’informazione mi unisco al suo sciopero (come ho già fatto nelle scorse settimane) per altri 4 giorni intensificando la mia battaglia con un giorno di sciopero della sete.
Lo scopo di questo mio sciopero, inoltre, è quello di vedere finalmente calendarizzata e discussa a Palazzo Campanella la proposta di legge - a prima firma del Presidente Nicola Irto - per l’istituzione e la nomina del Garante dei detenuti in Calabria. Una figura imprescindibile per garantire -appunto- il rispetto dello Stato di diritto nelle nostre carceri dove salute, lavoro, rieducazione, giustizia vengono negati ai danni di cittadini che seppur meritevoli di essere privati della libertà non meritano di essere rinchiusi in luoghi sovraffollati e insalubri.

Rocco Ruffa
militante del Partito Radicale Nonviolento