venerdì 24 marzo 2017

GIUSTIZIA: L’OTTIMO CONSIGLIO DI BENEDETTO CROCE (NEL 1911): STATE LONTANI DAI TRIBUNALI

di Valter Vecellio

 

  La lettera è di Benedetto Croce, indirizzata a Giovanni Amendola la data è del 1 giugno1911. Croce racconta di una disavventura giudiziaria capitata a Giuseppe Prezzolini. Si chiude con un consiglio: stare quanto più possibile lontano dai tribunali. Croce non è un estremista anarcoide; è un liberale con il senso dello Stato e delle istituzioni; e tuttavia, quando si tratta dei tribunali, consiglia prudenza e cautela. Un po’ come per la superstizione: Croce non crede alla jella: “Ma prendo le mie precauzioni”.

  A Croce, al suo “consiglio”, alle sue “precauzioni”, mi viene da pensare nel leggere i risultati di un sondaggio demoscopico secondo le quali un italiano su due ha poca o nessuna fiducia nei confronti dei magistrati e del modo in cui applicano le leggi di cui, purtroppo, questo paese è infarcito. Confesso che comprendo molto bene questo italiano su due timoroso; e fatico a comprendere come, al contrario, ci sia un italiano su due che questo timore non lo coltivi.

  Lui lo dice con il sorriso tra le labbra; io lo penso seriamente: sono d’accordo con il presidente dell’Associazione Nazionale dei Magistrati Piercamillo Davigo: “Pensavo peggio, temevo stessimo a zero”.

  Il dottor Davigo si “consola” dicendo che “il consenso nei nostri confronti è cresciuto, dopo anni  di campagna martellante contro la magistratura dovrebbe essere a zero”. Non appare molto allarmato da quanto emerge dal sondaggio; e già questo è allarmante. Allarma. Un allarme che deriva, probabilmente, dal fatto che si appartiene a quella scuola di pensiero che affonda le sue radici in Emile Zola, le cui notti, diceva, “sarebbero state un incubo al solo terribile pensiero di un innocente che sconta una colpa che non ha commesso”. Sarà preda di incubi, lo sarà mai stato, il dottor Davigo?

   Non sarebbe male (sarebbe anzi doveroso) che il magistrato si chieda se non sia anche lui, con il suo “fare” (o non “fare”, beninteso) responsabile del modo in cui viene  “percepito”. Il dottor Davigo parla di “campagna martellante contro la magistratura”; verrebbe da rispondergli con Dante: “…credo ch’un spirto del mio sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa…”. Ma non è cosa da potersi liquidare con una battuta, con un verso, sia pure di Dante. 

  Due terzi degli italiani dice di non credere nella giustizia;  il 69 per cento degli interpellati ritiene che “settori della magistratura perseguano fini politici”. Dottor Davigo: non c’è proprio nulla di che scherzare.

  Purtroppo, tocca ancora una volta, dire: “Heri dicebamus”. Giusto trent’anni fa i radicali di Marco Pannella, con socialisti di Bettino Craxi e liberali di Alfredo Biondi, raccolgono le firme per tre referendum sulla giustizia. Referendum, se lo ricordano nei “Palazzi” del potere?, che si concludono con una netta affermazione dei SI. Poi il Parlamento approva la cosiddetta legge Vassalli, che però va in senso esattamente contrario al voto popolare(ma è quello ardentemente voluto dai predecessori del dottor Davigo).

  Gli italiani, in stragrande maggioranza, vogliono che sia introdotta la responsabilità civile dei magistrati, perché, per capirci, non si ripetano più casi come quelli di Enzo Tortora. Chiedono che i magistrati fuori ruolo tornino alle loro funzioni originarie. Chiedono che l’uso della custodia cautelare e il carcere preventivo si applichino solo per reati gravi. Chiedono la separazione delle carriere dei magistrati, perché il cittadino sia giudicato da un “giudice terzo”, obiettivo e imparziale.

  A leggere i quesiti referendari di allora non ce n’è uno che non valga oggi, per l’oggi. A chi obietta che si tratta di proposte ad uso (e abuso) di politici che hanno qualcosa da rimproverarsi, è sufficiente rispondere con le parole di Giovanni Falcone: “…un sistema accusatorio parte dal presupposto di un PM che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienza, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice, non essere come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carattere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e PM siano, in realtà indistinguibili gli uni dagli altri…”.

   Ancora: “Ora sul piano del concreto svolgersi dell’attività del PM, non può non riconoscersi che i confini fra obbligatorietà e discrezionalità sono assolutamente labili e, soprattutto, che la discrezionalità è, in una certa misura, un dato fisiologico e, quindi, ineliminabile nell’attività dl PM. Ed allora, se vogliamo realisticamente affrontare i problemi, evitando di rifugiarsi nel comodo ossequio formale dei principi, dobbiamo riconoscere che il vero problema è quello del controllo e della responsabilità del PM per l’esercizio delle sue funzioni… Mi sembra giunto, quindi, il momento di razionalizzare e coordinare l’attività del PM finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticista della obbligatorietà dell’azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli della sua attività…” (dall’intervento al convegno di Studi Giuridici di Senigallia, 15 marzo 1990).

   Anni fa Leonardo Sciascia si chiedeva: “Qual è la situazione? Un giovane esce dall’Università con una laurea in giurisprudenza; senza alcuna pratica forense e con poca esperienza, direbbe Manzoni, del ‘cuore umano’, si presenta ad un concorso; lo supera svolgendo temi inerenti astrattamente al diritto e rispondendo a dei quesiti ugualmente astratti e da quel momento entra nella sfera di un potere assolutamente indipendente da ogni altro; un potere che non somiglia a nessun altro che sia possibile conseguire attraverso un corso di studi di uguale durata, attraverso una uguale intelligenza e diligenza di studio, attraverso un concorso superato con uguale quantità di conoscenza dottrinaria e con uguale fatica…”.

  E dunque l’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia (e crisi è forse parola troppo leggera) deriva principalmente dal fatto che “una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio… Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto”. E’ amaro trent’anni dopo dirci le stesse cose.

  Vero è, dottor Davigo, quello che annotava, secoli fa, Cesare Beccaria: “Il giudice non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto”. E dunque, torna buono il cauteloso consiglio di Croce con cui questa nota è cominciata.

mercoledì 22 marzo 2017

SE IL MAGISTRATO E IL FIGLIO DEL NARCO-TRAFFICANTE ARRIVANO ALLE STESSE CONCLUSIONI…


di Valter Vecellio

Se il magistrato e il figlio del narco-trafficante arrivano alle stesse conclusioni ...

“Coincidenze”, che tuttavia un loro significato devono pur averle.
Il presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone “riflette” ad alta voce sui modi più efficaci per contrastare il traffico di droga; confida: “Ero assolutamente contrario all’idea della legalizzazione, perché non mi convinceva gran parte degli argomenti. Adesso ho un po’ cambiato posizione”.
   Cantone si pone una domanda, che è la domanda: “Una legalizzazione di droga controllata, anche nella modalità di vendita, non potrebbe avere effetti migliori rispetto allo spaccio che avviene alla luce del giorno nella totale e assoluta impunità che riguarda amplissime fasce della popolazione giovanile?”.
   E ancora: “E’ un po’ ipocrisia all’italiana, ci nascondiamo dietro il proibizionismo sapendo che quelle norme servono a riempire le carceri, di extracomunitari in gran parte, e nessuno si preoccupa del fenomeno che cresce”.
   Quasi contemporaneamente, in un albergo romano, ho incontrato un quarantenne colombiano, con un nome “pesante”: Juan Pablo Escobar, figlio del famigerato narco-trafficante. Qualcuno se lo ricorderà: feroce, spietato, ucciso nel 1993 a Medellin. A un certo punto lui e la sua banda di narco-trafficanti sono giunti a controllare circa l’80 per cento della produzione della cocaina, era ricchissimo, potentissimo. Per molti anni in Colombia lui e i suoi complici hanno fatto il buono e il cattivo tempo, e potevano contare su ramificate e potenti complicità: nel suo paese e in tutti gli stati americani, Stati Uniti compresi. Fino a quando, evidentemente, ha fatto il passo più lungo della gamba, fino a quando ha dato davvero troppo fastidio ai suoi complici e protettori; così, come spesso accade, e non solo in Colombia, lo hanno “venduto”, ed eliminato. Juan Pablo ha una quarantina d’anni; non ha nulla a che fare con il mondo del padre, fa l’architetto, vive in Argentina; quando hanno ammazzato il padre, con la famiglia ha lasciato il paese, per anni, nel timore di vendette e ritorsioni ha vissuto da clandestino; poi ha detto basta, e ha ripreso il suo nome. Da qualche tempo tiene anche conferenze, incontra i figli delle vittime del padre, lavora per quella che chiama “la necessaria riconciliazione”, racconta la sua esperienza di figlio di uno dei più conosciuti e potenti narco-trafficanti del mondo. Ha scritto un libro,  “Gli ultimi segreti dei Narcos”, pubblicato in Italia da Newton Compton. Descrive il padre, che ha conosciuto solo da bambino, come persona affettuosa, protettiva. Non stupisce: accade che i criminali siano ottimi genitori; anche i macellai  nazisti di giorno uccidevano migliaia di ebrei nelle camere a gas; la sera giocavano con i figli e amabilmente suonavano il pianoforte. Juan Pablo scopre chi è realmente padre quando ha sette anni, è lui che glielo dice. Racconta che suo padre certamente è responsabile al cento per cento per quello che ha fatto, ma che al tempo stesso è stato utilizzato politicamente: aveva relazioni inconfessabili con la CIA americana, per le attività anticomuniste nel centro e nel sud America e in particolare contro il Nicaragua sandinista. Capitoli di storia, dice, ancora tutti da scrivere.
   Sono trascorsi più di vent’anni da quando Pablo Escobar è stato ucciso. Gli chiedo com’è, oggi, la situazione. “Possono uccidere, in un giorno solo tutti i narco-trafficanti, risponde, ci sarà sempre qualcuno che sarà pronto a prendere il loro posto, e aggiunge: se possibile, la situazione è perfino peggiorata. Solo se ne parla di meno”.
Gli chiedo quale può essere secondo lui il possibile rimedio. “La legalizzazione della droga”, risponde senza esitazione. Me lo faccio ripetere, nel timore di non aver ben compreso, anche se il suo spagnolo è molto semplice e chiaro: “Legalizzare”, scandisce. “Lo dice la storia: la politica proibizionista è completamente fallita. Ha solo arricchito i narco-trafficanti. Se la droga fosse stata legale trent’anni fa, mio padre e tanti altri come lui non ci sarebbero mai stati”. Curioso che nelle stesse ore un magistrato impegnato nella lotta alla corruzione e il figlio di uno dei più sanguinari narco-trafficanti del mondo giungano alla stessa conclusione; e prima di Cantone, più o meno nello stesso modo si era espresso il responsabile della Direzione Nazionale Antimafia Franco Roberti; e altri ancora.
   Quanto basta per occuparsene, dal punto di vista giornalistico, conoscere i motivi per cui si arriva a queste conclusioni, si avanzano queste proposte. Naturalmente non se ne farà nulla. Al massimo, obtorto collo, accadrà di assistere a stucchevoli dibattiti dove uno dice le ragioni del SI e un altro quelle del NO. Perché da quando si è inventata questa maledetta par condicio bisogna sempre e comunque che ci sia un favorevole e un contrario. Non basta far conoscere in modo “neutro” e completo che cosa si propone e perché.
   Anche in passato: se si voleva informare come sia necessario vaccinarsi contro il morbillo o la meningite, ecco che bisogna che in studio ci sia qualcuno che dice che il vaccino “è cattivo”, e poco importa se allo scienziato si oppone un esperto di canzonette anni Settanta. Così, per sapere perché qualcuno che lavora sul campo suggerisce di farla finita con la legge Fini-Giovanardi e percorrere altre strade, bisognerà “obbligatoriamente” ospitare anche il parere di chi, senza alcuna preparazione e cognizione, ci assicura che uno spinello è qualcosa di demoniaco.
   D’accordo, il “battibecco” è meglio dell’attuale silenzio. Ma non sarebbe ora di piantarla con questa parossistica par condicio e limitarsi a informare e raccontare i fatti, man mano che accadono?

domenica 19 marzo 2017

La Calabria è antimafiosa

di Ilario Ammendolia

Benvenuto Signor Presidente,
È così tanto il rispetto che proviamo nei Suoi confronti e per il Suo ruolo che non Le faremo il torto di scrivere una lettera retorica e ruffiana.
Lei è il terzo presidente della Repubblica che viene nella nostra Terra. Pochi anni fa, all’indomani del delitto Fortugno, abbiamo avuto la presenza di Carlo Azeglio Ciampi. Oggi Lei è qui perché la Locride è stata scelta - e non a caso - come luogo di incontro dei familiari delle vittime delle mafie.
Ancor prima è venuto il presidente Giuseppe Saragat e ha visitato San Luca per rendere omaggio alla memoria di Corrado Alvaro. Il nostro conterraneo, importante scrittore e giornalista, che qualche anno prima aveva scritto un editoriale sul Corriere della Sera in cui affermava che i calabresi si sentivano altra cosa rispetto allo Stato perché  lo Stato aveva abbandonato la Calabria.
Editoriale più attuale che mai!
In Aspromonte, Saragat non ha parlato di ‘ndrangheta e non perché fosse reticente. In quegli anni, in gran parte della Calabria la mafia non c’era affatto, esisteva in qualche angolo remoto ed era, comunque, un fenomeno assolutamente marginale... I “mafiosi” si riunivano in qualche oscuro anfratto per parlare di “corna”, di “onore”, o del furto di qualche animale.
Le cose sono cambiate quando è iniziata un’opera di distruzione sistematica del nostro fragile (ma dignitoso) apparato produttivo e la conseguente fine della nostra civiltà. In poco tempo le terre divennero incolte, le montagne arse, le mille  botteghe artigianali chiuse, le piccole industrie conobbero una crisi senza fine.
Lo “Stato” ha programmato un esodo di massa perché invece di creare lavoro al Sud è stato più comodo spostare manodopera a basso costo verso il Centro-Nord. Una scelta calata dall’alto che fece diventare i nostri paesi spettrali, le strade deserte, le case ruderi di alcun valore. A un popolo di lavoratori instancabili e tenaci è stato inoculato il virus dello scrocco, dell’assistenzialismo, del vagabondaggio, della subalternità.
Da questa scelta tragica e scellerata nasce la ‘ndrangheta!
Non giudichi col metro della mafia siciliana o della camorra napoletana che hanno altre origini e altra storia.
È doloroso dirlo ma in Calabria, per decenni lo Stato ha generato ‘ndrangheta  senza mai combatterla! Anzi vi sono stati ministri e alti rappresentanti dello “Stato” che l’hanno utilizzata come strumento di governo. Si pensi al summit di Montalto!
Oggi  verranno letti i nomi delle vittime di mafia. Non conosco il loro numero, ma so bene che vanno tutte onorate, perché sono tutte “nostre” allo stesso modo.
Nella stragrande maggioranza si tratta di commercianti, muratori, agricoltori, liberi professionisti. Rocco Gatto era un mugnaio, Marino un bravissimo chirurgo, Scuteri un muratore, Simonetta un avvocato, De Maio un sindaco, Futia un dipendente comunale, la signora Speziale una donna molto stimata nella sua comunità. Potrei continuare all’infinito….
Per fortuna nostra - e lo diciamo con autentico sollievo - non è mai stato toccato un solo capello, nè forata la gomma di una bicicletta a un magistrato, a un deputato, a un questore, a un prefetto. Ne consegue che le centinaia di  vittime della ‘ndrangheta uccise in questi ultimi trenta anni appartengono al popolo calabrese.
Rifletta Signor Presidente,
le vittime sono carne e sangue del nostro popolo ma sul banco degli imputati sono riusciti a mettere “i calabresi” con un’opera di diffamazione lucida e calcolata che non ha riscontri nella storia.
Chi clicca Calabria vi troverà a fianco la parola ndrangheta! È questa la vittoria di coloro che hanno voluto ridurre la Calabria a una sola dimensione: quella criminale!
L’hanno fatto per logiche di potere esterne e contro la nostra Regione e che nulla hanno a che vedere con la lotta alla ‘ndrangheta.
Io apprezzo i sacrifici di coloro che combattono la criminalità ma, al di là della loro volontà, molti degli “eroi” che occupano la scena sono stati funzionali a questo perverso disegno.
Le darò un riscontro inoppugnabile.
Dinanzi alle migliaia di vittime di mafia vi sono almeno il doppio di vittime innocenti della “giustizia”.
Non parlo di errori giudiziari ma di innocenti finiti in carcere. È forte e legittimo il sospetto che l’alto numero degli incatenati sia servito per conquistare le prime pagine dei giornali e i titoli di apertura delle televisioni nazionali. In due sole “brillanti operazioni” (leggi giustizia sommaria) oltre duecento innocenti hanno varcato le porte del carcere: vittime di una strategia antimeridionale che grida vendetta al Cielo. Di molti di loro rivedo il volto : alcuni morti di infarto, altri di angoscia, molti di crepacuore. 
Oggi, sono molti a dire che il popolo calabrese non partecipa alla “lotta alla ndrangheta”. Si tratta di un falso storico, di un luogo comune, di un paradigma che va corretto perché in questi anni l’unico argine che ha retto all’espansione mafiosa è stato quello costruito - in silenzio e a prezzo di enormi sacrifici e di molte vittime - dal popolo calabrese. È vero invece che i calabresi si rifiutano di diventare marionette dell’indecente teatro della falsa lotta alla ‘ndrangheta.
Signor Presidente,
Lei probabilmente non leggerà mai questa lettera sicuramente incompleta e di scarso valore.
Quindi lo scrivo “a futura memoria”: non si vincerà la ‘ndrangheta se lo Stato non ripenserà al suo modo di essere in Calabria. 
Non ci può essere lotta alla ‘ndrangheta che non sia anche lotta per l’attuazione della Costituzione che continua a essere ignorata e calpestata soprattutto nella nostra terra.
Qualora Ella volesse vedere il punto preciso in cui la ‘ndrangheta nasce non faccia come l’on. Bindi. Non vada in elicottero a Polsi. Trovi il modo di ascoltare il rantolo profondo di quella parte della Calabria che non ha più voce.
Noi, siamo uomini di uno dei tanti “Sud” del mondo. Siamo  europei collocati nel cuore del Mediterraneo.
La Repubblica Italiana nata dalla Resistenza ci appartiene e La sentiamo profondamente “nostra”!
Lo “Stato” continua a ignorarci, a combatterci e a tenerci “fuori”, a “escluderci”, commettendo un grave errore e un imperdonabile sopruso!
Nella misura in cui lo può, non lo consenta oltre Signor Presidente,
noi siamo convintamente “non violenti”, democratici, “partigiani” della Costituzione. Non abbiamo nostalgie neo-borboniche, nè idee separatiste.
Questa Terra però è piena di comprensibile rabbia, di grande amarezza, di giusta collera che potrebbe esplodere in qualsiasi momento con conseguenze facilmente prevedibili.
E non è questo che vogliamo!
Vorremmo invece che l’occasione di una Sua prossima visita fosse l’approvazione di una legge per il diritto al lavoro o per garantire la stessa assistenza sanitaria a tutti i cittadini italiani. Signor Presidente,
realizziamo un Monumento ideale a tutte le vittime di mafia, ma utilizziamo come mattoni il sacrificio di tanti innocenti finiti nelle galere, il sangue dei nostri emigranti caduti in mezzo mondo, il sudore dei nostri tenaci contadini scacciati dalla terra, l’amarezza dei nostri giovani disoccupati, le sofferenze dei nostri ammalati senza cure,  l’umiliazione della Calabria diffamata.
E col sangue dei nostri martiri scriviamoci sopra “Onore, Dignità e Riscatto per il Popolo Calabrese”!

mercoledì 15 marzo 2017

sulla "forza che nasce dalla verità e dall'amore"



"Insistenza per la verità", "nonviolenza", "forza dell'amore", ... questi sono i significati che vanno abbinati al termine satyagraha che umilmente cerco di praticare come hanno fatto prima di me giganti del calibro di Mohandas Karamchand Gandhi (detto Mahatma), Martin Luther King, Giacinto Pannella (detto Marco).
La mia consiste in 4 giorni consecutivi di sciopero della fame con l'aggravio di un giorno di sciopero della sete ogni settimana: questa settimana si concluderà alla mezzanotte di venerdì 17 o anche prima se le persone alle quali è rivolto il mio appello vorranno prestare ascolto alla mia richiesta.

Una richiesta semplice: sapere che fine ha fatto la proposta di legge per istituire il Garante calabrese dei detenuti.
Da due anni, infatti, la proposta di legge (la numero 34/10^ del 2015) per istituire la figura del "Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale" -a prima firma del Presidente Nicola Irto- giace nelle stanze del Consiglio Regionale della Calabria dimenticata

Eppure nella relazione illustrativa della PL viene spiegato come sia "urgente approvare ed istituire il Garante regionale per i detenuti" "in grado di intervenire (...) per migliorare le condizioni detentive e per consentire, all'interno delle stesse strutture (ndr: privative della libertà personale) l'esercizio dei diritti essenziali dell'uomo (vita, dignità, salute, religione, famiglia, istruzione, formazione, lavoro, risocializzazione)".

L'urgenza non è cessata ma si è aggravata dal 2015 ad oggi: stando ai dati diffusi dal DAP (dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) e a quelli da noi ottenuti nel corso delle visite ispettive effettuate da Giuseppe Candido e dal sottoscritto come delegazione del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito nel corso degli ultimi 3 anni il sovraffollamento, dopo un leggero calo, è ricominciato a salire; le (insufficienti) piante organiche della Polizia Penitenziaria e della Magistratura di Sorveglianza sono decresciute anziché aumentare; la possibilità di salvaguardare l'integrità psicologica dei detenuti a cominciare dalla salvaguardia dei legami affettivi con i propri cari continua ad esser ridotta ad un lumicino; le attività rieducative (culturali e lavorative) sono rimaste "ferme al palo" condannando i detenuti ad una pena nella pena: l'impossibilità di essere debitamente rieducati secondo quanto stabilisce l'articolo 27 della nostra Costituzione.

Grazie a tutte le testate giornalistiche che in queste settimane si sono dimostrate sensibili alla mia iniziativa nonviolenta, a cominciare da Radio Radicale da sempre in prima linea nella diffusione delle tematiche legate alla Giustizia e al carcere.
 

Di seguito il collegamento alla pagina di che contiene l'intervista che mi è stata fatta da Cristiana Pugliese:

mercoledì 8 marzo 2017

"La durata è la forma delle cose"

Rocco Ruffa (Partito Radicale Nonviolento): in sciopero della fame per il Garante Regionale dei detenuti


Vibo Valentia, 8/3/2017 18:30
Rocco Ruffa, militante del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, continua il satyagraha (metodo di lotta politica fondato sulla nonviolenza) per l'istituzione del Garante Regionale dei detenuti e delle persone private della libertà.


"Come ogni settimana, proseguo la mia battaglia con 4 giorni di sciopero della fame che si concluderanno Domenica 12 Marzo".

Questa nuova battaglia (dopo quella portata avanti assieme a Giuseppe Candido per tutto il 2016) ha avuto inizio il 5 Febbraio scorso con l'iniziativa nonviolenta di Rita Bernardini.

"A sostegno della battaglia dell'On. Rita Bernardini in "digiuno di dialogo" dal 5 Febbraio scorso, ho intrapreso questa battaglia perché ne condivido pienamente le motivazioni: Stralcio della riforma dell'Ordinamento Penitenziario dalla complessiva riforma del processo penale in corso al Senato della Repubblica e urgente emanazione di un provvedimento di amnistia e indulto (art. 79 della Costituzione) per far rientrare lo Stato Italiano nella sua stessa legalità che viola apertamente non rispettando gli artt. 3 e 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (sui trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti e sulla irragionevole durate dei processi)".

Proprio oggi, l'On. Bernardini ha ricevuto prova di apertura al dialogo da parte delle istituzioni; questo pomeriggio, infatti, assieme ad una delegazione del Partito Radicale, è stata ricevuta dal Ministro Andrea Orlando che ha espresso parole di elogio nei confronti della ex-parlamentare radicale.

"Salutando con favore l'iniziativa del Ministro che ha voluto ricevere Rita Bernardini interrompo lo sciopero della sete che inizialmente avevo previsto" - prosegue Ruffa - "Ma il ritardo con cui le istituzioni calabresi si occupano del Disegno di Legge a prima firma del Presidente Nicola Irto per l'istituzione della  figura del garante -che la legge prevede in ogni regione- è inaccettabile".

Avendo preso parte alle visite ispettive condotte da Giuseppe Candido (direttore editoriale del periodico Abolire la miseria della Calabria e anch'egli militante storico del partito della nonviolenza) in tutte le carceri calabresi, è stato possibile accertare le gravi carenze che si ripercuotono anche sugli agenti della Polizia Penitenziaria. "La necessità di istituire una figura di garanzia che accerti l'effettività rieducativa delle pene alle quali i detenuti hanno diritto (art. 27 della Costituzione) è imprescindibile e deve essere messa al più presto all'ordine del giorno dell'agenda politica calabrese" conclude lo stesso Ruffa.

mercoledì 1 marzo 2017

L'eutanasia, la Giustizia e lo Stato di diritto


In questi giorni molti hanno saputo -attraverso i mezzi di informazione- della morta di Dj Fabo e di come essa sia avvenuta:
Fabiano Antoniani si è tolto la vita in una clinica svizzera dove ha ingerito un veleno ovvero ha potuto ricevere l’eutanasia.
La sua morte, sicuramente, sarebbe passata in silenzio se non fosse stato per l’azione nonviolenta di disobbedienza civile di Marco Cappato - tesoriere dell’associazione Luca Coscioni - che lo ha accompagnato fino in Svizzera.
Per aver aiutato una persona seppur consenziente a morire, Marco Cappato ha dovuto violare l’art. 580 del Codice penale che punisce chi istiga o presta il suo aiuto al suicidio con una pena che va dai 5 ai 12 anni di reclusione (ma rischia fino a 14 anni secondo l’avv. Filomena Gallo, segretario della stessa associazione).

I radicali sono “politici” di rango che utilizzano la nonviolenza e la disobbedienza civile per combattere leggi ingiuste, per chiedere allo Stato di non violare le sue stesse leggi, per chiedere al Parlamento di legiferare nella difesa dei diritti umani di tutti i cittadini.
Il merito dei radicali in questi decenni, anche grazie alle battaglie e agli insegnamenti di Marco Pannella, è stato quello di avere innescato un dibattito pubblico su temi che il resto dei partiti politici avrebbe voluto trattare in disparte, nel chiuso di una stanza, senza interferenze dell’opinione pubblica: è il caso della obiezione di coscienza, del divorzio, dell’aborto, del finanziamento pubblico ai partiti e via dicendo.

E se oggi sul tema dell’eutanasia e delle disposizioni di fine vita si è riusciti a bucare il “muro del silenzio”, altre volte l’indisponibilità a trattare certi temi ha raggiunto e raggiunge i limiti della censura: è il caso di Rita Bernardini che per la legalizzazione della cannabis e per la riforma della Giustizia da anni si batte strenuamente.
Quanti di voi sanno che oggi, 1 Marzo 2017, Rita Bernardini è al suo 24° giorno di sciopero ella fame? E quanti sanno le motivazioni per le quali conduce questa forma di lotta nonviolenta così estrema?
L’On. Bernardini, chiede una legge di amnistia e indulto, propedeutica ad una vera riforma della Giustizia, e chiede contestualmente lo stralcio della riforma dell’Ordinamento Penitenziario dalla generica riforma del Processo penale incardinata al Senato, che corre il serio rischio di non vedere mai la luce.
Nel tentativo di dare forza alla battaglia dell’On. Bernardini e nella speranza di aprire uno spiraglio nel mondo dell’informazione mi unisco al suo sciopero (come ho già fatto nelle scorse settimane) per altri 4 giorni intensificando la mia battaglia con un giorno di sciopero della sete.
Lo scopo di questo mio sciopero, inoltre, è quello di vedere finalmente calendarizzata e discussa a Palazzo Campanella la proposta di legge - a prima firma del Presidente Nicola Irto - per l’istituzione e la nomina del Garante dei detenuti in Calabria. Una figura imprescindibile per garantire -appunto- il rispetto dello Stato di diritto nelle nostre carceri dove salute, lavoro, rieducazione, giustizia vengono negati ai danni di cittadini che seppur meritevoli di essere privati della libertà non meritano di essere rinchiusi in luoghi sovraffollati e insalubri.

Rocco Ruffa
militante del Partito Radicale Nonviolento