sabato 7 gennaio 2017

Il costo del biglietto dell'autobus

Quando prendiamo la decisione di stare con qualcuno (sia che si tratti del compagno della propria vita, sia che si tratti di qualcuno che ci "accompagnerà" durante il pranzo di Natale o il cenone di Capodanno) l'idea di base è che si condividono le cose che si hanno: dalle mie parti è una buona abitudine quella di condividere il cibo, così, nel corso delle varie ricorrenze, qualunque sia la casa in cui ci si riunisce, ognuno porta qualcosa; la parmigiana di zia Teresa, la caponata di zia Rina, le fileja di zia Paola, sono solo alcune delle prelibatezze che ne corso degli anni ho imparato ha (ri-)conoscere. È vero, una società - quella calabrese - dove in cucina comandano le donne: "matriarcato (a)morale".


"Condividere il cibo", d'altronde, è il significato etimologico della parola "compagno" - dal latino "cum panem", colui con cui dividi il pane; condividere quello che si ha è una "legge morale" che ogni uomo ha impresso nel proprio genoma; condividere il proprio denaro, è anche un concetto di rango costituzionale, visto che l'articolo 2 del nostro patto costituente sancisce inequivocabilmente che ogni uomo (e ogni donna) deve adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Eppure questo concetto universale, sembra si stia sempre più allontanando nella pratica quotidiana. Sempre più persone - specie se risiedono nelle regioni più meridionali del Paese - rinunciano a curarsi anche se stanno male; rinunciano a cercare un lavoro anche se non hanno una fonte di reddito; rinunciano a impegnarsi in prima persona in politica, lasciando questo compito (come temeva Giuseppe Fava, il cui omicidio ricorre in questi giorni) ai "professionisti della politica".

E poi ci sono formazioni politiche dove chiunque può fare attività politica e - se si è capaci - si viene valorizzati senza distinzioni di sesso, di razza, di credo religioso, di provenienza geografica, ...
La formazione politica che ho in mente, mentre scrivo queste parole, è il Partito Radicale Nonviolento di Marco Pannella buonanima (come si dice dalle mie parti).
Potersi dire radicali è estremamente semplice se - come diceva lo stesso Marco Pannella - si pensa che l'unico presupposto per poterlo essere è quello di "pagare l'obolo", di "pagare il biglietto dell'autobus per un anno", di versare la quota di iscrizione. Essere iscritti al Partito Radicale, vuol dire poter esprimere le proprie idee e dare il proprio contributo senza intermediari, rappresentanti, corpi intermedi.

Il logo del Partito Radicale con il volto di Gandhi stilizzato
scrivendo Partito Radicale in oltre 50 lingue diverse
Eppure, iscriversi al PRNTT (le altre due lettere dell'acronimo stanno per "transnazionale" e "transpartito"), è un lusso che molti italiani (quei milioni che l'ISTAT certifica essere in "povertà assoluta") non possono permettersi. E allora che fine fa l'articolo 2 della Costituzione?

Ecco la proposta:
tenuto conto che da tempo immemore il Partito Radicale tiene conto del reddito dei "popoli" per consentire l'iscrizione al partito, sarebbe opportuno - in un paese come l'Italia dove la coesione sociale è ai minimi termini e il divario tra chi ha di più e chi ha di meno non fa che aumentare - tenerne conto anche su scala regionale.

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