martedì 10 gennaio 2017

"Ossigeno puro"

L'amico avvocato Giuseppe Rossodivita dice di questo eccellente articolo:



"Ossigeno puro"
di Valter Vecellio





La lascio per ultima, la domanda. Di tempo ne è trascorso, ma ho timore di riaprire una ferita che non si cicatrizza. La donna che mi siede davanti, gentile, minuta, che parla a bassa voce e ricorda nel tratto il suo grande padre, è Annamaria Sciascia; e sono nel salotto della sua casa di Palermo. La risposta la immagino, la telecamera ronza, l’operatore attende. Ecco, lo dico: Leonardo suo padre è stato spesso al centro di tante polemiche, alcune hanno comportato la insanabile rottura con amicizie consolidate. Quel è stata la polemica che a lui, ma anche a voi della famiglia vi ha maggiormente ferito?
   “L’ultima: quella sui professionisti dell’antimafia”, risponde Annamaria. “Ed è una polemica che continua a tormentarci, non si è mai sopita, non finisce mai: c’è sempre qualcuno che la ritira fuori, strumentalmente; questo è il dolore e il dispiacere più grande: vedere la malafede e non poter fare nulla. Nella lettera che mio padre ci lasciò prima di morire lui ci raccomandava di non perdere tempo a difendere la sua memoria; e quindi quando vedo mio marito o i miei figli agitati per queste polemiche dico loro di tenere conto di quanto ci ha raccomandato, che è tempo perso, perché un familiare che difende è un po’ patetico. Però fa male, questa è una polemica che gli ha avvelenato sicuramente gli ultimi anni, perché lo hanno accusato in modo volgare, meschino. Ammesso che avesse torto, ma come si potevano dire le cose che gli sono state dette… Ancora oggi procura amarezza e non riesco a capacitarmene; e poi ora vedere quelle stesse persone che cercano di spiegare, di rettificare, di dire che insomma no, che… È stato un episodio di grande inciviltà che mio padre non meritava assolutamente”.

  



Non meritava (e non merita) assolutamente la caterva di insulti che Sciascia ha dovuto subire.

Ricordiamola quella polemica, a costo di rinnovare pena e dolore; perché di certe cose, di certe affermazioni è doveroso serbare memoria, non dimenticare.
  E’ il 10 gennaio di trent’anni fa. Il Corriere della Sera pubblica un lungo articolo di Leonardo Sciascia, redazionalmente intitolato “I professionisti dell’antimafia” (e sarà questo titolo a provocare lo scandalo; non il contenuto, che con molto anticipo, come sempre quando si tratta di Sciascia, mette in guardia da rischi e pericoli che puntualmente poi si avverano e verificano).
  Quell’articolo viene accolto da una quantità di polemiche animate da tanti, in cattiva, pessima fede; e da qualcuno (pochissimi, invero) in buona fede. E culmina con l’insulto, l’accusa, scagliati con cattiveria: Sciascia è diventato un “quaquaraquà”.

   Apro una parentesi, prima di continuare il racconto di quella vicenda: si tratta di un consiglio: procuratevi “La storia della mafia” di Leonardo Sciascia, qualche anno fa meritoriamente pubblicata dalle edizioni Barion. Si tratta di uno smilzo volumetto di una settantina di pagine; il testo di Sciascia è accompagnato da “Io, Nanà e i don”, di Giancarlo Macaluso, e impreziosito da una postfazione di Salvatore Ferita. Il piccolo saggio di Sciascia è un quasi inedito: pubblicato in origine per la rivista mondadoriana Storia Illustrata nell’aprile del 1972; il quotidiano francese Libération lo ripubblica il 30 dicembre 1976. Infine viene utilizzato come prefazione dal giornalista francese Fabrizio Calvi per la sua ormai difficile da trovare La vie quotidienne de la Mafia 1950 à nos jours, e per la traduzione italiana del libro, La vita quotidiana della mafia dal 1950 a oggi (Rizzoli). Un testo, quello di Sciascia che, a distanza di anni è ancora di utile, preziosa lettura.

  Perché questo “consiglio”? Perché quella “storia della mafia” dice tanto, tutto dell’impegno politico, culturale, civile, umano di Sciascia; come lo dicono i suoi articoli pubblicati su Il Giorno, L’Ora e Mondo nuovo negli anni Sessanta; e come, infine dice Il giorno della civetta: romanzo che parla all’Italia per la prima volta di una cosa che si chiama mafia. Sapete, sembra incredibile: Sciascia è il primo scrittore siciliano che parla di mafia. Prima di lui non lo ha fatto Luigi Pirandello, non lo ha fatto Giovanni Verga, Luigi Capuana, Tomasi di Lampedusa.. nessuno.
  Il 10 gennaio del 1987 lo scrittore civile e anti-mafioso, buono e coraggioso scopre di essere una sorta di Gregorio Samsa, il protagonista delle kafkiane Metamorfosi, che si corica uomo, e si sveglia il mattino dopo scarafaggio.
  E’ “colpevole” di aver posto, quel mattino, con quell’articolo, un problema essenziale, che ancora oggi ci si deve porre (e che molto spesso la cronaca conferma di grande attualità). L’essenza di quell’articolo è che non si può derogare dal diritto; che non si può piegare una legge, una norma a seconda della contingente convenienza: se quella legge o quella norma sono sbagliate, inefficaci, non le si può aggirare, magari pensando di usarle in altra, conveniente, occasione. Le leggi e le regole sbagliate si cambiano; e fino quando non si cambiano, si applicano. Non si può fingere che la norma non ci sia quando si tratta di attribuire un (meritato) incarico di vertice alla procura di Marsala, a Paolo Borsellino; è contemporaneamente farsi forte di quella norma, in altra occasione, per  impedire a Giovanni Falcone di ricoprire un incarico apicale a palazzo di Giustizia di Palermo, e che certamente meritava e avrebbe ricoperto in maniera eccellente.
  Parte da un libro, Sciascia, dello storico inglese Christopher Duggan e che tratta della mafia negli anni del fascismo; parlandone Sciascia ammonisce che l’antimafia, facilmente, si può trasformare in strumento di potere; e lo può benissimo diventare anche in un sistema democratico, “retorica aiutando, e spirito critico mancando”.
  Si fa poi il caso di un sindaco, Leoluca Orlando, leader allora di un movimento di marcata venatura giustizialista; molto attivo nell’azione agitatoria anti-mafiosa, molto meno efficace nell’azione di amministratore della città. Allora come ora, del resto. E, giusto per ricordare, l’impegno anti-mafioso, suo, di Alfredo Galasso e Carmine Mancuso, è giunto al punto di denunciare Giovanni Falcone al Consiglio Superiore della Magistratura, con l’accusa di occultare la verità sui delitti politico-mafiosi nei cassetti della sua scrivania. Ma questa come si dice, è altra storia.
  Scritto quello che Sciascia voleva scrivere, si sono aperte le cataratte degli sdegnati indignati sdegnosi. Impossibile citarli tutti.  Diamone qui qualche assaggio.
  Il coordinamento antimafia di Palermo definisce Sciascia un “quaquaraquà”. Giampaolo Pansa sostiene di non riconoscere più Sciascia, facendo l’operazione più disumana che si può fare nei confronti di una persona: negarla. Sciascia viene additato come una sorta di responsabile dell’isolamento di Borsellino e Falcone, quasi un responsabile degli attentati in cui vengono uccisi. Anni dopo, quando le polemiche del momento sono sopite, nella prima puntata di “Vieni con me”, Roberto Saviano sposa questa “scuola di pensiero”. Ma tantissimi altri con lui, prima e dopo.
   Procedo ora per ricordi. Oreste del Buono, per altro mite e gentile direttore di Linus e mille altre cose ancora: accusa Sciascia, di essere un poco mafioso, e conseguentemente di lanciare “avvertimenti” (mafiosi, beninteso) verso chi dissente dal tripudio generale nei suoi confronti. Il già ricordato Pansa prova per “il nuovo Sciascia una gran pena. A me pare che Sciascia si è messo a combattere con Sciascia. Sciascia contro Sciascia. Impegnato a demolire articolo dopo articolo, l’immagine di se stesso”. Claudio Fava dipinge un “Leonardo Sciascia, ormai travolto dagli anni e da antichi livori...”; Nando Dalla Chiesa, che sostiene di averci pensato a lungo, e di essere giunto “…alla conclusione che Il giorno della civetta è uno splendido libro sulla mafia, una fotografia perfetta, ma non uno strumento di lotta contro la mafia”. Arrivano poi gli attacchi e le volgarità postume. Pino Arlacchi su La Repubblica sostiene che Sciascia non può essere considerato un maestro, “perché gravissimi furono i suoi silenzi, mentre altri sfidavano le cosche; II giorno della civetta in realtà fa l’apologia di Cosa Nostra”.
  Testuale: “Una storia ben narrata della sconfitta della giustizia dello Stato e dei suoi rappresentanti di fronte a un delitto di mafia”. Trascurabile il fatto che ciò che viene raccontato nel libro era quello che in quegli anni accadeva; irrilevante che sia stato grazie a Sciascia e al suo libro che se ne è avuta, finalmente percezione e conoscenza. Tutto ciò, per Arlacchi diventa una sorta di complicità. E, infatti: “Dei due maggiori personaggi del racconto, il capitano dei carabinieri e il capobastone locale, è il secondo che colpisce sovrasta”. Conclusione: “Sciascia stregato dalla mafia”. Un livello di polemica che indigna il compianto Tullio De Mauro, il cui fratello Mauro, giornalista de L’Ora impegnato in inchieste di mafia, scompare un giorno del 1970, mai più ritrovato. Dice De Mauro: “I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fenomeno folcloristico siciliano. E Sciascia si è sempre esposte in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 dalla scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti, per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in una serie di innumerevoli circostanze. Un sociologo [Arlacchi, ndr] dovrebbe valutare queste cose, come dovrebbe aver capito che Sciascia aveva intuito perfettamente la struttura internazionale della mafia e i suoi stretti rapporti con il mondo della politica”.
  Non solo Arlacchi. Interpellato dal Corriere della Sera, il filosofo Manlio Sgalambro dice che “Sciascia era uno scrittore civile, un maestro di scuola che voleva insegnarci le buone maniere sociali. Ma a rivisitarlo oggi è come rileggere Silvio Pellico, la sua funzione è esaurita, Sciascia non ci serve più”. E come non ricordare Andrea Camilleri, che pure di Sciascia si professa amico? Anche lui a dire che Il giorno della civetta fa l’apologia della mafia, dimostrando così che si può essere bravi romanzieri la cui parola è più veloce del pensiero. Pochi, a fianco di Sciascia, come spesso accadeva: Marco Pannella, i radicali, Rossana Rossanda, qualche socialista come Claudio Martelli; altri ce ne saranno stati, ma non molti. Anche loro sommersi dal coro violento e protervo degli inquisitori,  flebile, allora, la loro voce, a fronte degli schiamazzanti crucifige.   
  A questo punto, prendiamo il toro per le corna, vediamo che fondamento può mai avere quest’accusa. “Non c’è nulla che mi infastidisca quanto l’esser considerato un esperto di mafia, o come si usa dire, un mafiologo”, scrive Sciascia sul Corriere della Sera del 19 settembre 1982 (“Mafia: così è, anche se non vi pare”). “Sono semplicemente uno che è nato, vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone. Sono un esperto di mafia così come lo sono in fatto di agricoltura, di emigrazione, di tradizioni popolari, di zolfatara; a livello delle cose vissute e in parte sofferte”. Quell’“in parte sofferte” è indicativo. C’è il ricordo del sindaco mafioso di Racalmuto, si chiamava Baldassarre Tinebra, ucciso nel corso principale del paese, tutti sanno chi è l’assassino, nessuno parla, in galera ci finisce uno che il delitto non l’ha commesso; c’è il ricordo del nonno, capo-mastro in una zolfatara, “uomo dal polso fermo che riusciva a governare la miniera senza consentire intromissioni a sgherri e gregari delle cosche, arginando le vessazioni…”.
Non era un mafiologo, Sciascia; ma di mafia capiva, vedeva, sapeva. Al punto da darne esatta rappresentazione e definizione, quando disse con fulminante battuta e amarissima ironia che dal giorno della civetta si era arrivati al giorno dell’avvoltoio.  
  Il 14 gennaio 1987 Sciascia pubblica sempre sul Corriere della Sera dove replica alle accuse: “Il comunicato del cosiddetto Coordinamento antimafia è la dimostrazione esatta che sulla lotta alla mafia va fondandosi o si è addirittura fondato un potere che non consente dubbio, dissenso, critica. Proprio come se fossimo all’anno 1927. Nel mio articolo del 10 gennaio, c’era in effetti soltanto un richiamo alle regole, alle leggi dello Stato, alla Costituzione della Repubblica: e questo cosiddetto Coordinamento – frangia fanatica e stupida di quel costituendo o costituito potere – risponde con una violenza che rende più che attendibili le mie preoccupazioni, la mia denuncia. Ne sono soddisfatto: si sono consegnati all’opinione di chi sa avere un’opinione, nella loro vera immagine. Ed è chiaro che non da loro né da chi sta dietro di loro – e ne è riconoscibile (si dice per dire) lo stile – verrà una radicale lotta alla mafia. Loro sono affezionati alla “tensione”, e si preoccupano che non cada. Ma le “tensioni” sono appunto destinate a cadere: e specialmente quando obbediscono a giochi di fazione e mirano al conseguimento di un potere. In quanto al dottor Borsellino, non ho messo in discussione la sua competenza, che magari può essere oggetto di discussione per i suoi colleghi; sono le modalità della sua nomina che mi sono apparse e mi appaiono preoccupanti. Ed è proprio nella sentenza di un processo che mi pare sia stato appunto istruito dal dottor Borsellino, sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Palermo, seconda sezione, il 10 novembre dell’anno scorso, che trovo la migliore ragione, perché non ci si acquieti agli intendimenti del cosiddetto Coordinamento. Una sentenza che ha mandato assolti gli imputati e in cui ad un certo punto si legge: ‘Non può essere consentito al giudice lo stravolgimento delle regole probatorie da applicare solo ai processi di mafia; necessita sempre un serio e rigoroso controllo di tutti gli elementi del reato: le prove devono assumere carattere di certezza e gli indizi devono essere concordanti ed univoci; non c’è ingresso nel processo penale ai semplici sospetti e alle generiche opinioni. La lotta concreta al crimine potrà essere fatta solo con la seria utilizzazione degli strumenti normativi’. Parole che credo nessuna persona onesta e intelligente rifiuterebbe di sottoscrivere."
  Il sottolineato è mio: “richiamo alle regole…modalità della sua nomina che mi sono apparse e mi appaiono preoccupanti”.
  Siamo all’oggi. Ha solo qualche mese di “vecchiaia” un agile libretto scritto da Francesco Forgione, già parlamentare di Rifondazione Comunista, vice-presidente della passata commissione antimafia. Nulla so di Forgione, mi basta quello che scrive nel suo I tre tragediatori, la fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti (Rubbettino). Si può cominciare con un brano della prefazione scritta dall’ex magistrato Giuseppe Di Lello, a suo tempo, stretto collaboratore di Giovanni Falcone nel pool antimafia: “…Lo scopo dichiarato del libro di Forgione è analizzare i motivi profondi di una svolta rovinosa, individuando tutti i pericoli di un’antimafia opportunista e di facciata. Siamo infatti in una fase in cui tutto appare confuso e, per le tante ambiguità di molti protagonisti di vicende che interessano la lotta alla mafia, sembra difficile capire dove si situa il confine tra un’azione di contrasto seria ed efficace e comportamenti che, con il paravento dell’antimafia, sconfinano a volte nell’illiceità o quantomeno nel malcostume…”.
  Va giù a colpi di maglio, Forgione: “L’antimafia dei tragediatori è scoperta. E’ finita. Chi sono, da dove vengono e perché stanno crollando le icone e i ‘miti’ dell’antimafia… Imprenditori, giornalisti, magistrati, associazioni, sono travolti da inchieste giudiziarie e dalla questione morale. Hanno costruito carriere, accumulato potere, fatto affari. Nei salotti televisivi e sui giornali erano i nuovi eroi, Sempre pronti a dividere il mondo tra buoni e cattivi, puliti e collusi. Per anni sono stati intoccabili: o con loro, o con la mafia. Una trasfigurazione della realtà nella quale si perde il confine tra mafia e antimafia. E’ una storia che viene da lontano con risvolti politici e sociali…”.
  Ognuna delle 120 pagine del libro di Forgione è una conferma di quel monito contenuto in quell’articolo di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Nella montagna di ritagli che ingombrano il mio tavolo di lavoro, uno del 7 aprile di quest’anno, è un editoriale di Paolo Mieli, prima pagina del Corriere della Sera. Comincia così: “Adesso dovremmo tutti riconoscere che il pericolo era stato ben intravisto trent’anni fa da Sciascia per quanto è ormai evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia…”; e via così, per tre-quattromila parole.
  Viene lapidato, Sciascia, per averci messo in guardia dai disastri che proliferano, letali, “retorica aiutando, e spirito critico mancando”.  Trent’anni fa, ma sono bacilli di una “peste” sopita. Forse. Una melassa uniforme che incombe su tutti, e tutto avvolge. Una minaccia totalitaria, la cui cifra è costituita dall’assenza di memoria, di conoscenza, di “sapere”; una minaccia fatta di certezze, di assenza di dubbio.

sabato 7 gennaio 2017

Il costo del biglietto dell'autobus

Quando prendiamo la decisione di stare con qualcuno (sia che si tratti del compagno della propria vita, sia che si tratti di qualcuno che ci "accompagnerà" durante il pranzo di Natale o il cenone di Capodanno) l'idea di base è che si condividono le cose che si hanno: dalle mie parti è una buona abitudine quella di condividere il cibo, così, nel corso delle varie ricorrenze, qualunque sia la casa in cui ci si riunisce, ognuno porta qualcosa; la parmigiana di zia Teresa, la caponata di zia Rina, le fileja di zia Paola, sono solo alcune delle prelibatezze che ne corso degli anni ho imparato ha (ri-)conoscere. È vero, una società - quella calabrese - dove in cucina comandano le donne: "matriarcato (a)morale".


"Condividere il cibo", d'altronde, è il significato etimologico della parola "compagno" - dal latino "cum panem", colui con cui dividi il pane; condividere quello che si ha è una "legge morale" che ogni uomo ha impresso nel proprio genoma; condividere il proprio denaro, è anche un concetto di rango costituzionale, visto che l'articolo 2 del nostro patto costituente sancisce inequivocabilmente che ogni uomo (e ogni donna) deve adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Eppure questo concetto universale, sembra si stia sempre più allontanando nella pratica quotidiana. Sempre più persone - specie se risiedono nelle regioni più meridionali del Paese - rinunciano a curarsi anche se stanno male; rinunciano a cercare un lavoro anche se non hanno una fonte di reddito; rinunciano a impegnarsi in prima persona in politica, lasciando questo compito (come temeva Giuseppe Fava, il cui omicidio ricorre in questi giorni) ai "professionisti della politica".

E poi ci sono formazioni politiche dove chiunque può fare attività politica e - se si è capaci - si viene valorizzati senza distinzioni di sesso, di razza, di credo religioso, di provenienza geografica, ...
La formazione politica che ho in mente, mentre scrivo queste parole, è il Partito Radicale Nonviolento di Marco Pannella buonanima (come si dice dalle mie parti).
Potersi dire radicali è estremamente semplice se - come diceva lo stesso Marco Pannella - si pensa che l'unico presupposto per poterlo essere è quello di "pagare l'obolo", di "pagare il biglietto dell'autobus per un anno", di versare la quota di iscrizione. Essere iscritti al Partito Radicale, vuol dire poter esprimere le proprie idee e dare il proprio contributo senza intermediari, rappresentanti, corpi intermedi.

Il logo del Partito Radicale con il volto di Gandhi stilizzato
scrivendo Partito Radicale in oltre 50 lingue diverse
Eppure, iscriversi al PRNTT (le altre due lettere dell'acronimo stanno per "transnazionale" e "transpartito"), è un lusso che molti italiani (quei milioni che l'ISTAT certifica essere in "povertà assoluta") non possono permettersi. E allora che fine fa l'articolo 2 della Costituzione?

Ecco la proposta:
tenuto conto che da tempo immemore il Partito Radicale tiene conto del reddito dei "popoli" per consentire l'iscrizione al partito, sarebbe opportuno - in un paese come l'Italia dove la coesione sociale è ai minimi termini e il divario tra chi ha di più e chi ha di meno non fa che aumentare - tenerne conto anche su scala regionale.

giovedì 5 gennaio 2017

Intervista di Enzo Biagi a Giuseppe Fava del 28 dicembre 1983

Il 5 gennaio 1984 fu ucciso da dei "criminali organizzati" che - come lui denuncia in quest’intervista - “stanno in Parlamento, [...] a volte sono ministri”; una settimana prima rilasciava questa intervista ad Enzo Biagi con a fianco Nando Dalla Chiesa.

[...]
Enzo Biagi:
Giuseppe Fava, giornalista, scrittore, catanese, autore di romanzi e di opere per il teatro.
Fava, per i suoi racconti a che cosa si è ispirato?

Giuseppe Fava:
alle mie esperienze giornalistiche; io ti chiedo scusa ma sono esterrefatto dinanzi alle dichiarazioni del regista svizzero. Mi rendo conto, cioè, che c’è una enorme confusione che si fa sul problema della mafia; questo signore ha avuto a che fare con quelli che dalle nostre parti - come Sciascia giustamente dice - sono “scassapagliari”; cioè delinquenti da tre soldi che esistono su tutta la faccia della Terra. I mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre assemblee (ndr: e stando alle parole di Fava non stanno in carcere).
I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione (ndr: Fava parla nel 1983 ma vale anche oggi).
Se non si chiarisce questo equivoco di fondo …  Cioè non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale; questa è roba da piccola criminalità che, credo che faccia parte, oramai abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee.
Il problema della mafia è molto più tragico, più importante; è un problema di vertice della gestione della nazione ed è un problema che rischia di portare alla rovina e al decadimento culturale definitivo l’Italia.

E.B.: tu hai fatto una conoscenza diretta del mondo della mafia come giornalista?
G.F.: sì, ho conosciuto diversi personaggi dell’una e dell’altra parte attraverso quelle che erano le cronache, le inchieste, le indagini che andavamo conducendo e che puntualmente abbiamo riferito sui nostri giornali.
E.B.: chi ricordi di più di questi tipi? i vecchi mafiosi per esempio? sono cambiati?
G.F.: mah, sì, sì. Ma no! c’è un’abisso! Anche questa è una grande confusione che si fa fra la mafia qual era vent’anni fa, quindici anni fa e quella che è oggi (ndr: 1983):
allora il mafioso per eccellenza era Genco Russo. Io sono stato a casa di Genco Russo e - mi si perdoni il termine - ho avuto - con molta ironia lo dico - l’onore di essere stato l’unico ad intervistare Genco Russo; ad avere da lui un memoriale - da lui firmato - che cominciava: ““io sono Genco Russo, il re della mafia”. Genco Russo era un uomo il quale governava il territorio di Mussumeli (ndr: provincia di Caltanissetta) dove da vent’anni non c’era - non dico un omicidio ma - uno schiaffo; cioè non c’era un furto; dove tutto procedeva nell’ordine e nella legalità assoluta: era la vecchia mafia agricola, la quale governava un territorio e aveva una forza straordinaria che contro di loro non potevi fiatare. Governava 15, 20 mila, 30 mila, 40 mila voti di preferenze di una parte della provincia e nessun uomo politico poteva ignorare questa potenza determinante perché bastava che Genco Russo spostasse non da un partito all’altro ma all’interno dello stesso partito quella massa di voti per determinare la fortuna o l’infelicità di un uomo politico. Ecco perché poteva andare alla Regione Siciliana e spalancare con un calcio la porta degli assessori: perché lui era il padrone. Solo che poi … dopo la società corse avanti, si modificò tutto e i mafiosi non furono più quelli come Genco Russo. I mafiosi ora non sono quelli che ammazzano; quelli sono gli esecutori: anche al massimo livello si fanno i nomi di … - non lo so, io non li conosco personalmente - dei fratelli Greco; si dice che siano “i mafiosi vincenti a Palermo”, “i padroni della mafia”, “i governanti”, “i governatori”, “i vicerè della mafia”; non è vero. Loro sono - anche loro - degli esecutori; sono nella organizzazione e stanno al posto loro e fanno quello che gli altri … - non lo so, adesso io parlo di persone che sono incensurate, quindi presumo secondo l’accusa.
Un’organizzazione, la quale riesce a manovrare centomila miliardi l’anno (ndr: di lire)
che sono più, se non erro, del bilancio di un anno dello Stato italiano; in condizione di armare degli eserciti, in condizione di possedere delle flotte, di avere un’aviazione propria. Di fatti, in effetti, sta accadendo che la mafia si sia oramai pressoché impadronita almeno nel Medio-oriente del commercio delle armi, del mercato delle armi. Ecco gli americani contano in questo, però neanche loro avrebbero cittadinanza in italia come mafiosi se non ci fosse il potere politico-finanziario che consente loro di esistere perché questi ..., diciamo che di questi 100.000 miliardi, un terzo, un quinto resta in Italia e bisogna pure impiegarlo in qualche modo; bisogna riciclarlo, ripulirlo, re-investirlo. E allora ecco le banche, le banche nuove; questo pullulare, questo proliferare di banche nuove dovunque. E servono per riciclare: Il generale Dalla Chiesa lo aveva capito, questa era stata la sua grande intuizione - quello che lo portò alla morte - che era dentro le banche che bisognava frugare perché lì c’erano decine di migliaia di miliardi insanguinati che venivano immessi dentro le banche e ne fuoriuscivano per andare verso opere pubbliche; io ritengo che molte chiese siano state costruite con appalti avuti da denari mafiosi insanguinati.

E.B.: una volta si diceva che la forza dei mafiosi era la capacità di tacere; e adesso?
G.F.: io sono d’accordo con Nando Dalla Chiesa, la mafia ha acquistato una tale impunità da essere diventata persino tracotante; le parentele si fanno ufficialmente non è che ci siano … sì, certo, si cerca di tirar fuori le mani e di tenerle in alto quando c’è qualcuno che sta per essere ammazzato; l’alibi personale; l’alibi morale; … ma non credo che ci sia questa paura, questa necessità di ... (?). Io ho visto molti funerali di Stato - io dico una cosa della quale io solo sono convito e può anche, quindi, non esser vera - ma molto spesso gli assassini erano sul palco delle autorità.

E.B.: cosa significa essere protetti secondo il linguaggio dei mafiosi?
G.F.: “essere protetti” significa poter vivere dentro questa società; io ho letto una intervista esemplare nei giorni scorsi a quel signore di Torino che ha corrotto tutto l’ambiente politico torinese. E diceva una cosa che è fondamentale; cioè a dire, è una legge mafiosa che è stata esportata,  è venuta su dalla Sicilia, e fa parte ormai della cultura nazionale: “non si fa niente in Italia se non c’è l’assenso del politico e se il politico non è pagato”. Ecco noi viviamo in questo tipo di società; in questo tipo di società la protezione è indispensabile se qualcuno non vuol condurre la vita da lupo solitario che può essere anche una scelta, può essere anche affascinante: esser soli nella vita e non avere, né aderenze, né protezione da alcuna parte. Orgogliosamente soli fino all’ultimo. Questa può essere una scelta ma sessanta milioni di italiani non potranno farla.
E.B.: non hanno questa vocazione alla solitudine.

E.B.: Vorrei fare a voi tutti una domanda; secondo voi che cosa bisognerebbe fare per eliminare questo fenomeno? Fava?
G.F.: mah, tu fai una piccola domanda che avrebbe bisogno di un’enciclopedia; cioè, io posso dirti soltanto che a mio parere tutto parte da una assenza dello Stato e dal fallimento della società politica italiana. Bisogna ricominciare da lì; cioè è forse necessario creare una seconda Repubblica in Italia e intendo di creare una seconda repubblica che abbia delle leggi e una struttura di democrazia che eliminino il pericolo che il politico possa diventare succube o di se stesso, o della sua avidità o dalla ferocia degli altri o della paura o comunque in ogni caso che possa essere soltanto un professionista della politica; tutto nasce da lì, dal fallimento della politica e degli uomini politici e della nostra struttura politica e forse della nostra democrazia così come noi l’abbiamo in buonafede appassionatamente costruita e che ci si sta sgretolando tra le mani; dovremmo ricominciare da lì.
E.B.: prof. Dalla Chiesa.
Nando Dalla Chiesa: io c’ho pensato a lungo; credo che la regola più efficace sia quella di far capire che il delitto non dà potere, anzi che il delitto toglie il potere.


Per ascoltare l’intervista cliccate qui.